Niscemi 25 Febbraio. La nostra presenza contro ogni Stato contro ogni Guerra

Riportiamo di seguito  l’intervento letto al microfono da una compagna e il volantino distribuito durante il corteo.

Quando abbiamo saputo del rigetto della richiesta di annullamento del regime di 41bis per Alfredo, è stato come se tutto il dolore e la rabbia, non solo di questi mesi, ma di una vita, di tutte le vite schiacciate nei secoli di civile dominio e devastazione si condensassero in un nodo, e ci separassero per un momento l’uno dall’altro: così funziona il dolore forse, ci investe e prende la sua forma in ognuno, si prende le parole, si prende lo spazio.

E allora si chiamano gli altri, si vogliono sentire le voci amiche, i fratelli e sorelle i cui cuori conosciamo. Così abbiamo fatto, abbiamo sentito i compagni nostri, e poi il silenzio.

E nel silenzio ci siamo guardati, e quando ho visto le lacrime negli occhi del mio amore, del mio compagno, ho pensato che compassione e compagno sono parole sorelle, che non è possibile separare; per la stessa ragione, i signori di Stato, coloro che detengono il potere di imprigionare, torturare e uccidere non conoscono compassione.

Se così fosse, non potrebbero sopportare il peso dei morti nelle loro guerre, quello di ogni prigioniero torturato e ucciso nelle loro galere, tutte le vite spezzate di chi chiamano pazzo, dei suicidi, dei morti uccisi da una medicina sempre più disumana, nei luoghi ancora più disumani che sono gli ospedali. Non potrebbero sopportare il sussurro dei fantasmi di chi è morto solo, senza il conforto di un volto caro, senza un rito di saluto, durante la cosiddetta pandemia.

Quando scriveranno sui giornali di queste ed altre giornate di lotta, diranno “erano in duecento, in cinquecento, erano duemila”.

Loro vedranno solo i nostri corpi vivi: noi sappiamo e sapremo di essere una moltitudine; tutta la schiera infinita di quei morti, e dei morti nelle stragi e dei morti per tumore perché si abita a Lentini, devastata dalle megadiscariche, o a Gela, o ad Augusta devastate da Eni, o a Niscemi, con le antenne della base che ammalano e uccidono corpi adulti e bambini e le cui onde funeste arrivano lontano in forma di bombe e droni. Oggi e sempre camminiamo con i nostri morti ancora invendicati, col dolore degli oppressi in cuore: questa è la nostra forza e la forza della nostra lotta.

Se non ora mai!

Contro la guerra degli Stati, mai più vittime mai più spettatori!

Da un anno a questa parte sui media non si fa che parlare di guerra. Giornalisti, esperti e commentatori sembrano stupiti dall’ultima escalation bellica sul suolo ucraino e parlano di un ritorno indietro delle lancette della storia: se li pensassimo in buonafede verrebbe da chiedersi come abbiano fatto a non vedere la guerra ininterrotta e sistematica che gli Stati della NATO muovono nelle periferie dell’impero.

Ma oggi vorremmo parlare di un altro tipo di guerra, di quella che ogni Stato necessariamente muove contro gli abitanti dei territori sotto il proprio controllo: se, infatti, lo Stato è il detentore del monopolio della violenza legittima, la sua stessa esistenza non è altro che una dichiarazione di guerra contro chiunque, per necessità o per scelta, non viva secondo i canoni e i ritmi imposti dalla produzione e dal consumo.

Negli ultimi anni in questo Paese abbiamo assistito a un acuirsi della violenza statuale contro sfruttati e oppressi e ad un affinamento dei mezzi con cui viene portata avanti la guerra ai poveri. Sono stati istituiti strumenti quali il DASPO urbano che serve a espellere la marginalità dalle città vetrina; abbiamo visto la morte di tre studenti durante l’alternanza scuola lavoro e gli arresti domiciliari per quattro studenti medi che hanno protestato contro questa nuova forma di sfruttamento. C’è stato l’innalzamento fino a sei anni della reclusione per il reato di blocco stradale e due lavoratori della logistica hanno trovato la morte investiti dai camion durante i picchetti. A Lodi i padroni della FedEx hanno pagato dei mazzieri per picchiare gli scioperanti, mentre nel mediterraneo e nei luoghi di lavoro migliaia di dannati della terra trovano la morte ogni anno. Nel carcere di Modena, l’8 marzo 2020, è avvenuta la mattanza che ha portato alla morte di 13 persone e il 2022 nelle galere italiane sarà ricordato come l’anno dei record: ben 84 suicidi.

Viene allora da chiedersi: questa non è forse guerra?

Certo che è una guerra e per fortuna c’è anche chi, fra le fila degli oppressi, non abbassa il capo e reagisce a tutto ciò e per questo viene represso. La punta dell’iceberg della repressione degli ultimi anni è rappresentata dal caso di Alfredo Cospito: un compagno anarchico condannato all’ergastolo ostativo per strage politica perché accusato di aver messo due ordigni a basso potenziale davanti ad una caserma degli allievi dei carabinieri che non hanno causato né morti né feriti e che dal maggio 2022 si trova nel regime del 41bis, un vero e proprio sistema di tortura.

Il 41bis nacque come dispositivo emergenziale negli anni ’90 contro i detenuti appartenenti ad associazioni mafiose, ma dai primi anni del 2000 fu esteso anche ai reati di terrorismo, aprendo così i battenti anche per quattro compagni delle BR-PCC (di cui una si è tolta la vita). Questo ci mostra come ogni emergenza si trasformi nella nuova normalità e come ogni nuovo dispositivo repressivo, se non contrastato al suo nascere, verrà esteso a sempre più persone.

Alfredo da più di quattro mesi ha intrapreso uno sciopero della fame ad oltranza contro questo abominio repressivo e ha ricevuto la solidarietà dalle azioni e dalle mobilitazioni susseguitesi in Italia e nel mondo. Crediamo necessario porsi al suo fianco perché ovunque ci sia resistenza a questo mondo ridotto a una mega macchina produttrice di oppressione e miseria nasce una scintilla di libertà e umanità che va conservata e diffusa.

Alfredo, con la sua lotta, ci ha dimostrato la superiorità etica e morale dell’individuo in lotta rispetto al sadismo gregario del funzionario e del cittadino e, qualunque sarà l’esito del suo sciopero della fame, l’esempio della sua dignità dovrà guidarci nella lotta contro l’oppressione che viviamo nelle nostre quotidianità per la costruzione di un mondo di liberi e uguali in cui le qualità umane possano trovare la loro massima espressione. Dall’altro lato della barricata abbiamo uno Stato che accusa chi scende in strada di essere un terrorista perché in realtà è terrorizzato dalla breccia che Alfredo Cospito ha aperto all’interno della società. Questo stesso Stato ieri, per bocca dei giudici della Cassazione, lo ha condannato a morte, rigettando la richiesta di revoca del 41bis fatta dal suo legale. Non ci sono parole adatte ad esprimere la rabbia e lo sdegno che ci agita in questi istanti, né le parole da sole ci salveranno dalla ferocia dei piani di guerra degli Stati. Sarà un intreccio indimenticato di tentativi rivoluzionari fatti e non fatti, di abbracci e di lutti, di istinto, sogni e ragioni, da cui distilleremo le nostre azioni per una vita senza eserciti, Stati, carceri e carcerieri.

La democrazia ha sempre una strage alle spalle

La democrazia ha sempre una strage alle spalle

E u me cori

dopu tant’anni

è a Purtedda

è ‘nta i petri

è ‘nto sangu

di cumpagni

ammazzati

Ignazio Buttitta

Io non ci sto e non mi arrendo, e continuerò il mio sciopero della fame per l’abolizione del 41 bis e dell’ergastolo ostativo fino all’ultimo mio respiro, per far conoscere al mondo questi due abomini repressivi di questo paese.”

Alfredo Cospito

Dichiarazionedel 1 dicembre2022

In Sicilia anche la geografia umana è capace di ironia amara, di giochi di luci e di ombre.

Portella della Ginestra è a venti chilometri, quindici minuti in macchina, dal centro di Palermo. La città più grande della Regione, capitale e palcoscenico del potere politico di ieri e di oggi, ha alle spalle il luogo della prima strage di poveri dell’Italia repubblicana: 11 morti, tra cui 3 bambini, 30 feriti gravi. Se a sparare furono quelli della banda Giuliano, il movente fu la convergenza di interessi delle classi dominanti e la ragion di Stato. La stessa ragion di Stato che ha fatto fuori Pisciotta per salvare il buon nome di Scelba e di Mattarella, come se bastasse ammazzare un uomo per eliminare la memoria collettiva che gli oppressi e le oppresse mantengono dei loro massacratori e affamatori.

La vicenda di Alfredo, oltre ad insegnarci la differenza tra la dignità di un individuo in lotta e la barbarie civilizzata delle burocrazie dell’annientamento, ci ricorda come il dominio sia ancora quell’impasto di ferocia, menzogne, idiozia.

Si illudono di uccidere un anarchico e, con questo, l’anarchia (ossia la possibilità stessa che la ribellione venga sognata… e prima o poi realizzata); si illudono che siano in molti a credere ancora alla guerra santa dello Stato contro la Mafia, mentre chi sta in basso sa come l’unica lotta vera è quella dei ricchi contro i poveri, e viceversa; pretendono di commuovere milioni di persone portate sul lastrico dalle stesse banche e finanza di cui degli arrabbiati attaccano le sedi; si illudono di potere salvare capre e cavoli con un TSO ad Alfredo, come se per tutti la vita sia solo un ammasso di cellule vive, costrette all’ubbidienza; si illudono che lo spettacolo delle apparenze funzionerà per sempre, anche se tutto il teatro sociale ha una strage alle spalle.

Possono perpetrare mille eccidi e mille ancora, ne hanno tutti i mezzi, ma la dignità di Alfredo è un monumento a fronte della pochezza degli statisti, è un fuoco nelle coscienze che non si spegne.

Contro 41 bis, ergastolo ostativo, TSO! Contro la società galera!

Meglio un giorno da Cospito che mille da Nordio!

La solidarietà si fa classe pericolosa

testo del volantino distribuito a Palermo, al presidio del 4 febbraio contro il 41 bis, il carcere e in solidarietà ad Alfredo a 108 giorni dall’inizio dello sciopero della fame.

La solidarietà si fa classe pericolosa

Sul corpo di Alfredo, la cui vita è appesa a un filo, sulla pelle di questi giorni, si sta consumando una battaglia di lungo corso, tanto drammatica nei suoi effetti quanto monopolizzata dalla falsità delle dichiarazioni ufficiali. Quello che lo Stato, coi suoi fascisti al governo (ma sarebbe stato lo stesso se a governare ci fossero stati i democratici), si illude di liquidare una volta per tutte è la ribellione contro il Sistema e il suo fatto fondamentale: la solidarietà cosciente che ne è presupposto e fine. La libertà è il crimine che contiene tutti gli altri, per questo il coro rapace dei giornali e della politica vede nelle vetrine frantumate, nelle auto in fiamme, nei cortei non autorizzati, in tutti i segni della dignità e della vicinanza ad Alfredo che irrompono nella quotidianità del terrore, solo teppismo e criminalità. Il motivo per cui ci si indigna dice qualcosa di chi si è: per i servi del potere è più grave il danneggiamento delle cose che mettere a morte degli esseri viventi, è strage un ordigno senza morti né feriti e non la lunga scia di sangue che Stato, servizi segreti e funzionari in doppio petto hanno steso nel corso della storia italiana.

Su Portella della Ginestra, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, stazione di Bologna, fino alle stragi di Capaci, su tutte le stragi vere, incombe l’ombra indicibile dello Stato e dei suoi apparati.

La guerra dichiarata dallo Stato agli anarchici e alle anarchiche e a chiunque lotti oggi è la declinazione attuale di quella di lungo corso che le classi dominanti conduconocontro gli oppressi e le oppresse dall’unità d’Italia.

Per lo Stato, il movimento anarchico e le altre correnti rivoluzionarie incarnano due peccati: il mantenimento della memoria delle classi subalterne e la coscienza che non ci si può liberare da un dominio che si regge su eserciti, prigioni, logica del terrore, soltanto con battaglie di opinione e raccolta firme.

La ferocia di questa logica si accompagna al pragmatismo nell’affrontare gli scenari di crisi. La guerra Nato/ Russia che giorno dopo giorno rischia di diventare mondiale, vede nell’Italia un suo snodo cruciale con il Muos, Sigonella, e i depositi di armi nucleari; contemporaneamente, l’Italia è il paese più instabile socialmente, specie con il caro-vita e l’inflazione che mordono le condizioni di sopravvivenza di milioni di persone, soprattutto al Sud. Il 41bis, l’ergastolo ostativo, le associazioni mafiose a pioggia sulle colonie meridionali, sono uno strumento perfetto di controllo e repressione della popolazione, per fare in modo che rabbia e intelligenza non si incontrino, magari decidendo di disturbare le preziose servitù militari ed energetiche. Per queste ragioni questi istituti non si devono toccare: ben al di là dei pericolosi anarchici conosciuti dalle questure (come ci ricordano tutti i giornali), è alla folla sconosciuta degli spossessati che si indirizza il messaggio di guerra. Si rassegnino pure, sono l’ingiustizia e l’infelicità lepiùpotenti istigazioni a delinquere.

nemiche e nemici delle galere

In memoria di Michel Bühler

Il 7 novembre si è spento, all’età di 77 anni, il cantante e poeta internazionalista svizzero Michel Bühler. Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo testo  in sua memoria di Moffo Schimmenti, nostro e suo compagno di lotta (e di canti) nella Brigata Internazionale: l’esperienza cui diedero vita compagne e compagni di diversi paesi per la solidarietà e il sostegno attivi alla rivoluzione sandinista in Nicaragua.  Le compagne e i compagni vivono nelle lotte!

Il cantore

Le chanteur

El cantor

il poeta della lotta,

dell’amore

il nostro poeta

 

compagno

  compañero 

camerada

                                     Michel

canteremo ancora

di Yvan, della gente di Yale

degli ultimi

che abbiamo messo in prima fila

adios

Richieste di “Sorveglianza speciale” a Messina

Scritto di Claudio, uno dei due compagni a cui lo Stato vorrebbe destinare quel sovrappiù di sorveglianza- tale da renderla speciale– che destina ad ogni individuo.  Presidio di solidarietà il 2 novembre mattina, di fronte il Tribunale di Messina

 

Neanche il tempo di festeggiare per aver riottenuto la patente (stavolta per ben due anni, al termine dei quali mi spetta la quinta visita psichiatrica e la solita trafila di urine al s.e.r.t.) che una telefonata dal commissariato mi avverte di dovermi recare presso i loro uffici per ritirare una notifica. Se non avessi potuto raggiungerli al più presto, avrei dovuto dire dove mi trovavo ché mi avrebbero raggiunto loro. Gli era venuta premura perché si trattava (ma questo l’ho scoperto dopo) della richiesta di “sorveglianza speciale” nei miei confronti, da consegnare entro dieci giorni dalla data dell’udienza. Il provvedimento era pronto, con tutti gli incartamenti prodotti da questore, ros e pubblico ministero, dal mese di luglio. Mi è stato però consegnato di tutta fretta l’ultimo giorno utile prima che venisse invalidato. Aspettavo una notifica per un processo, quindi quando ho realizzato di cosa si trattasse ho avuto un momento di spiazzamento. Protrattosi – nonostante la nitidezza con cui mi si chiarificava interiormente ciò che per me è più importante, più urgente, più vitale – fino a qualche giorno fa, dal momento che il giorno della consegna mi era stata data solo la prima pagina del verbale che mi riguardava. (Dalla quale avevo potuto appurare che sono stati di recente archiviati due procedimenti nei miei confronti “in ordine al reato di cui all’art. 270bis c.p.”, per la “non idoneità del materiale investigativo raccolto a sostenere l’accusa in giudizio”. E poi che “le indagini svolte hanno in primo luogo ricostruito l’esistenza e l’operatività sul territorio provinciale di una compagine ispirata, quantomeno nei suoi esponenti principali, a modelli e concetti dell’anarchismo federativista.”) La restante parte del dossier ho potuto consultarla soltanto avantieri, quando il mio avvocato è riuscito a ritirarlo. Dopo un riepilogo dei miei carichi pendenti e del mio casellario giudiziario, su cui tornerò in seguito, vi si può leggere la relazione con cui il PM, “visto il D. Lgs n.159 del 6.09.2011, chiede che il tribunale voglia applicare a Risitano Claudio la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, per una durata di anni due.” Quel codice a cui ho fatto riferimento è il codice antimafia – la natura della mia “pericolosità” essendo stata appurata dal ROS (lo stesso reparto al vertice del quale, per limitarmi a uno solo degli innumerevoli esempi possibili, si è trovato il generale Subranni, colui che escluse la pista mafiosa all’epoca dell’omicidio di Peppino Impastato) nel corso di indagini durante le quali sono state spiate le mie telefonate e pedinati i miei movimenti per “scoprire” ciò che sarei stato e sono disposto a riconoscere in qualunque momento e in qualunque condizione (dalla veglia raziocinante agli stati non ordinari di coscienza): “gli elementi informativi acquisiti e le conversazioni registrate nell’ambito del procedimento consentivano di documentare che il proposto frequenti gli ambienti dell’anarchismo, palesando reiteratamente (vds. vicende giudiziarie) condotte idiosincratiche nei confronti di qualsiasi forma di autorità e di espressione del potere statale”. Visto che le loro inchieste specifiche si sono rivelate dei buchi nell’acqua clamorosi, chiedono che si considerino le mie vicissitudini giuridiche e le mie condotte complessive. Su questo vorrei essere il più chiaro possibile: nessuno potrà mai estorcermi professioni di fede nei confronti della legalità. (E’ stato legale, nel paese in cui vivo e sono nato, deportare gli ebrei e illegale offrire loro ospitalità; se oggi si sostituisce ‘clandestino’ ad ebreo, ci si rende conto che c’è ben poco da esultare per la “costituzione più bella del mondo”.)

Nessuno, a maggior ragione mentre i venti di guerra infuriano ferendo a morte la parte più vulnerabile dell’umanità e i manager di Leonardo Finmeccanica diventano multimiliardari grazie alla produzione e alla vendita di armi letali, potrà mai convincermi della legittimità etica del monopolio della violenza in mano allo Stato; nessuno potrà convincermi, qualora decidessero di distruggere ulteriormente la città in cui abito dando inizio ai cantieri per la costruzione del ponte sullo stretto e inviando l’esercito a presidiarli come si fa con le opere strategiche, che è giusto dissentire, sì, ma solo nell’alveo delle procedure consentite dall’ordinamento. Non firmerò petizioni con le quali mi impegno in nome della democrazia a capitolare di fronte al prevalere nella realtà materiale degli interessi più oligarchici.

Nessuno – neppure servendosi in modo strumentale e distorto della nozione di terrorismo – potrà mai inchiodare con le spalle al muro la mia coscienza di quanto profondamente diverse siano le pratiche, le tensioni e le idee di cui sono accusato da quelle portate avanti nell’ultimo secolo dalla mafia, con l’appoggio costante di vertici istituzionali operanti in parlamento, all’interno delle procure, a capo dei servizi segreti, dell’arma dei carabinieri e della polizia di stato. (Dalla strage di Portella della Ginestra agli attentati del 1992, dai morti lasciati sul selciato dalla polizia agli ordini di Scelba nel corso di scioperi e manifestazioni ai contadini e sindacalisti stroncati dalla lupara della mafia su mandato dei latifondisti per avere occupato le terre e per aver osato alzare la testa, è possibile ricostruire – dati accertati in sede storica alla mano – una sequenza impressionante di depistaggi orditi dall’alto e una sostanziale fattiva collaborazione tra sicari esperti d’armi, boss dell’economia e vertici dell’apparato statale).

Se è la mia condotta complessiva ad essere pericolosa (ma per chi? davvero chi è stritolato dal caro-vita, o rifletta sulle condizioni in cui lavora e abita, può sentirsi -se non al culmine di una manipolazione stregonesca- minacciato dalle azioni e dagli ideali degli anarchici?), risponderò su un terreno complessivo.

Per quante ambasce mi dia il pensiero dell’impatto pratico di un simile provvedimento sulla mia quotidianità, dall’impossibilità di lasciare il mio comune di residenza all’obbligo di rientro entro le dieci di sera, più altre piccole e grandi vessazioni che non c’è bisogno di nominare perché mi preme di più un altro ordine di considerazioni, so di non trovarmi nell’epicentro della violenza repressiva. Mi basta pensare solo per un istante a chi sta cercando di valicare una frontiera e si sente, perché lo è, braccato dalle polizie di due paesi; a tutte le detenute e i detenuti; a chi ad una pena già schifosa ed afflittiva si vede aggiungere il supplemento di condizioni detentive che implicano una quotidiana ulteriore tortura fisica e psicologica. Per questo motivo sia la mia intelligenza che il mio istinto mi suggeriscono di attraversare ciò che mi sta capitando con lo sguardo rivolto non tanto alla spada di damocle che pende sulla mia testa quanto al paesaggio sociale in cui questo avviene e alle valutazioni complessive che è possibile trarne. I valori occidentali sono evidentemente compatibilissimi con provvedimenti rivolti alla penalizzazione delle idee e giustificati dall’intento di prevenire il rischio che quelle idee diventino reati. Ma se si pensa che questo riguardi poche isolate teste calde, si rischia di non apprendere le dure lezioni degli ultimi anni. Se l’accusa rivolta ad anarchici e antagonisti è di “impedire all’autorità di svolgere le proprie funzioni”, che cosa si dirà di qualsiasi lotta che non sia puramente testimoniale? Se gli abitanti di Piombino, o della valle del Mela, si mobiliteranno contro l’inceneritore provando a impedire davvero la sua realizzazione, potrebbero incorrere anche loro in sanzioni del genere. Per questo scrivo, sentendo l’esigenza di condividere le mie riflessioni: alla parte di me, più scoraggiata, consapevole che “fintantoché le parole avranno tutto il senso, il senso dominante farà presto ad avere tutte le parole”, risponde un proverbio siciliano che mi è stato spesso ripetuto da un amico: “ ‘a lingua non avi l’ossa, ma rumpi l’ossa”. Non è mai del tutto inutile esprimersi, scrivere, gridare: per quanto chiunque desideri una vita diversa e si batta per intravederla non smetta ogni giorno di sperimentare che tutto ciò non può certo bastare a invertire il segno dell’epoca che ci è toccata in sorte. Forse serve solo a non arrendersi alla corrente: ma non è poco.

Scorro i fogli che ricostruiscono dal punto di vista delle guardie la mia biografia, e mi viene da chiedermi a quali corsi vengano sottoposti gli ufficiali dell’arma per disimparare a scrivere e a leggere in questo modo. “La di lui fidanzata” mi ha ricordato che la sorveglianza speciale è nelle sue ultime riformulazioni una misura figlia di provvedimenti molto simili adottati contro “oziosi, vagabondi” e sovversivi sia dal governo Crispi che dal governo Mussolini – facendomi respirare l’atmosfera e la prosa di un verbale redatto verso la fine del diciannovesimo secolo; un intero testo di Giorgio Cesarano scambiato –distorcendone per intero il senso- per un mio personale invito a dare avvio alla “lotta armata” contro “il c.d. potere negativo” rivela in un colpo solo i limiti ermeneutici di chi deve far corrispondere il materiale riscontrato con la tesi precostituita. Per il resto, gli elementi a mio carico sono un saluto al carcere di Siracusa e la disponibilità espressa per telefono ad ospitare a casa mia un compagno che sarebbe venuto a Messina per un colloquio con Anna, in quel momento detenuta a Gazzi. Nonché un generico collegamento con individui e realtà collettive presenti sia in Sicilia che nel resto d’Italia. Per il resto, si tratta per l’appunto di attingere al serbatoio dei procedimenti giudiziari passati e pendenti. E’ la somma che fa il totale. Vediamo dunque di che si tratta.

Nel 2009 “veniva denunciato per resistenza a pubblico ufficiale e per invasione di terreni o edifici, per fatti risalenti” all’anno precedente “in cui lo stesso, in concorso con altri, a conclusione di un corteo studentesco di protesta, occupava parte del locale ateneo, forzando il cordone formato dalle forze dell’ordine”. Quel giorno ho fatto esperienza di ciò che da tempo, confusamente, sentivo: e cioè che ribellarsi è possibile ed è giusto, nonostante tutto ciò che ci si erge innanzi per scoraggiarci dal tentare. (Che si tratti di un cordone, per quanto in quel caso veramente esiguo e privo dei mezzi della Celere, o di una denuncia – per quanto in quel caso priva di conseguenze camurriuse.) Non baratterei l’intensità di quella scoperta se in cambio mi venisse offerta una fedina penale immacolata. Nel 2010, “veniva denunciato in stato di libertà dalla Digos di Messina per interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità, blocco ferroviario, per fatti risalenti al 12.09.2010, in cui lo stesso, in concorso con altri, nel corso della manifestazione dei precari della scuola poneva in essere un blocco, di alcune ore, della circolazione ferroviaria all’interno della locale stazione centrale delle ff.ss”. Quel giorno, secondo cgil, cisl e uil le docenti e i docenti provenienti da mezza sicilia avrebbero dovuto “rappresentare la crisi” restando confinati a Piazza Cairoli ad ascoltare gli interventi dei sindacalisti. Ed invece..

Nel 2011, “veniva segnalato da personale della locale Compagnia della Guardia di Finanza, quale assuntore di sostanze stupefacenti”; perché sì, è capitato, capita e capiterà che io fumi marijuana o assuma sostanze enteogene e psichedeliche. E non sarà la paura del recupero da parte del riformismo istituzionale (peraltro sempre meno probabile intorno a questi temi, almeno in Italia) a farmi seppellire la bussola dell’antiproibizionismo. “Uccide di più lo stigma che le sostanze”. Io su questo terreno erigo le mie barricate di consapevolezza, fragili ed esposte alle intemperie come tutto ciò che è vivo, eppure ben salde – radicate e ravvivate nel contatto con la mia dimensione più profonda. Ma quanti danni atroci ha fatto e continua a fare ogni giorno, sulla carne viva del dolore e dell’inquietudine regnanti lì dove il capitale si fa dominio totale, la legislazione che dalla Craxi-Jervolino alla Fini-Giovanardi ha dichiarato guerra ai “drogati”? Una persona su quattro utilizza psicofarmaci – moltissime volutamente; altre – riottose alla visione del mondo dominante nei reparti psichiatrici (e fuori di essi: nella società che li produce) – su forzatura medico-poliziesca. Semplicemente, è lo Stato a decidere quali sostanze possano, o addirittura debbano, essere assunte e quali no. Ed io non voglio adeguarmi a questo andazzo. Hanno il coltello dalla parte del manico: ma mi ferirei mortalmente da solo, se per non risultare una “persona pericolosa” relegassi queste mie idee, che piuttosto vorrei gridare dappertutto, da tutti i tetti, nella clandestinità.

Nel 2012, sono stato denunciato per una manifestazione non autorizzata culminata in un breve blocco della circolazione ferroviaria, nel giorno in cui dalla val Susa era arrivato l’appello a “bloccare tutto, dappertutto”.

Nel 2013, sono stato denunciato per l’occupazione del teatro in fiera. Nessuna distanza intercorrente tra il me di adesso e il me di allora potrebbe mai indurmi un minimo di pentimento intorno a quell’azione. Da cui sono seguiti giorni, e poi mesi e anni, che hanno rivoluzionato la mia esistenza. Fino a farmi scorgere nell’etica anarchica (che non incarno affatto ma verso cui mi protendo con tutta la mia passione e con tutti i suoi inciampi) la prosecuzione quotidiana di quei bagliori che in modo intermittente avevano illuminato le situazioni e i contesti di lotta vissuti fino a quel momento. Il rifiuto della delega, l’opposizione con ogni mezzo necessario a chi spadroneggia nel regno degli eserciti e delle merci, l’appello con i gesti e le parole alla “solidarietà cosciente e voluta” piuttosto che alla presa del potere per modificare i rapporti sociali, sono state per me un’esortazione costante, uno sprone a non cercare scorciatoie e neppure strade comode. Ne sono venute altre denunce, una sfilza delle quali tra il 2013 e il 2016 a Niscemi per aver invaso la base Nato in cui è stato impiantato il Muos, per aver danneggiato le recinzioni di filo spinato, per violenza e resistenza a pubblico ufficiale, per aver impedito (purtroppo solo per qualche ora) l’arresto di una persona nei pressi del presidio. Anche sul corteo al Brennero, sulla ‘radunata sediziosa’ contro un banchetto di casapound, sull’interruzione della messa nella cattedrale il giorno della domenica delle palme mentre nell’indifferenza generalizzata il governo turco bombardava la città curda di Afrin: non ho autocritiche da fare che intacchino la sostanza di ciò che sentivo mentre mi trovavo in quei contesti. Innanzitutto, che volevo fortemente trovarmi lì. Un mondo nel quale non si può che obbedire alla logica della sopraffazione, e soccombere a tutto ciò che questo comporta, è per me inabitabile. Un mondo nel quale uno sparuto gruppo di persone, alcune conoscendosi solo da qualche giorno, attraversa in piena zona rossa la Sicilia per andare a fare un rumoroso saluto a un compagno in carcere nel giorno del suo compleanno, lo è un po’ meno. Se la posta in gioco è la criminalizzazione della solidarietà, non cercherò di schivarla stando schivo: si tratta invece di difenderla con tutto me stesso. Il tempo è ora. Ed è il tempo di dire forte e chiaro ciò che non si può più tacere. Nel paese della strage di piazza fontana (indagini depistate dal generale Maletti e dal capitano Labruna), di piazza della Loggia (uno dei cui esecutori si è scoperto dopo quarantanni essere un informatore dei servizi segreti), della stazione di Bologna (indagini depistate dal generale Musumeci, dal colonnello dei carabinieri Belmonte e dall’agente segreto Pazienza – per tacere del ruolo svolto dal maestro venerabile della P2, Licio Gelli); nel paese degli attentati di Capaci e Via D’Amelio (basterà nominare l’agenda rossa di Borsellino, l’ordigno all’Addaura contro Falcone, la fabbricazione del falso pentito Scarantino e le conseguenti condanne al 41 bis di persone che solo dopo 18 anni di torture quotidiane sono state riconosciute del tutto estranee ai fatti per vedere arrossire chi in vita sua si è sempre schierato dalla parte dei sepolcri imbiancati e dei colletti bianchi?); nel paese in cui mafia, fascisti, massoneria e servizi segreti hanno agito in combutta per stroncare ogni istanza di rivoluzionamento dei rapporti sociali e per “difendere la società” istituita: in questo paese in cui la rimozione di ciò che è accaduto si accompagna all’occultamento e alla distorsione di ciò che continua a succedere, ci sono in questo momento una compagna e due compagni anarchici (Anna Beniamino, Alfredo Cospito e Juan) condannati all’ergastolo o a 28 anni per il reato di tentata strage. Nonostante gli ordigni collocati davanti a una sede della lega nord e davanti alla scuola Allievi dei Carabinieri non abbiano determinato né morti né feriti. Alfredo Cospito è sottoposto al 41 bis, ed ha per questo iniziato uno sciopero della fame “a oltranza”. Sciopero a cui si è unito anche Juan. Di fronte a questa consapevolezza, ognuno tragga le sue conclusioni.

“Chiunque si sente nel quotidiano come in un deserto, è a un passo soltanto dal cuore di tutti, poiché è ad un passo soltanto dal proprio cuore. Non si tratta di arrestarsi, non si tratta di sedersi a piangere, di costruirsi un’oasi. Si tratta, al contrario, di accennare con tutta la forza rimasta quel passo di avvicinamento, quell’abbraccio d’amore e di lotta, che tanto più sembra assurdo quanto più il quotidiano appare deserto. E’ in questo movimento che ognuno potrà, nel perdurare del desiderio resistente all’annientamento oggettuale, scoprire in sé la presenza di quel programma storico che è la passione, e sentirsi pronto”.

Io non mi sento pronto affatto, ma qualche minimo appiglio ce l’ho e me lo tengo stretto: il mio abbraccio d’amore e di lotta, la mia più profonda solidarietà, vanno a Juan Alfredo e Anna.

Ciò che mi annienterebbe, più della convalida dei giudici alla richiesta del questore, sarebbe la collusione -in nome di una possibilità di quiete – con questo ordine delle cose.

Lo dico con tutto il cuore a chiunque, volendomi un po’ o tanto bene, si preoccupa per me – per le conseguenze del mio dire e del mio fare. Aiutatemi a non smarrire il contatto con ciò che in me trova a volte, in mezzo a mille viltà quotidiane, lo slancio e il coraggio della rivolta. Tutti i miei momenti di felicità più piena sono sgorgati da lì – e il più grave delitto che potrei commettere contro la mia sensibilità sarebbe quello di acconsentire al prosciugamento di quella fonte. Dopodiché certo, gran parte delle prescrizioni della sorveglianza speciale sono odiose, e spero con tutto me stesso di scamparla.

Il 2 mattina ci sarà l’udienza in tribunale. Chiunque volesse portare la propria solidarietà, in aula o fuori, è benvenuta/o. Vorrei leggere un testo simile a quello che ho scritto adesso – e per me sarebbe importante non sentirmi solo. Anche se so già di non esserlo, qualunque cosa accada.

p.s. vale pure, per chi non potesse esserci fisicamente, il supporto tramite telepatia

 

Ma chi ha detto che non c’è

Ma chi ha detto che non c’è

Resoconto della due giorni siciliana “Sulla soglia”

Qui il pdf del testo: Resoconto due giorni

Quale deserto dobbiamo attraversare per arrivare all’estinzione dello Stato? O cominciamo ad operare su delle cose che ci permettano di misurarci sulla costruzione di altre possibilità di concepire la storia, la società, oppure aspettiamo che si estingua lo Stato? Come avviene la trasformazione? (…) Come non ho fatto un collettivo di comunisti, così non farò un collettivo di anarchici puri. È chiaro che la cosa è complessa e possiamo fare grossi errori, ma io credo che quella della diversità sia l’unica strada che ci si può permettere di tentare”.

Giuseppe Aiello – Raffaele Paura, Quale deserto fegato

Mi è capitato spesso di vedere belle, anche fisicamente, persone che fino a qualche tempo prima mi sembravano quasi insignificanti. Quando con qualcuno stai progettando la tua vita e sperimenti te stesso nella rivolta possibile, vedi nei tuoi compagni di gioco degli individui belli, e non più i volti e i corpi tristi che esauriscono la propria luce nell’abitudine e nella coercizione. Credo che siano proprio loro a diventare belli (e non io a vederli tali) nel momento in cui esprimono i propri desideri e vivono le proprie idee”.

Massimo Passamani, Il corpo e la rivolta, «Canenero»

Il dominio è difficile da spezzare non nonostante, ma perché dimezza i soggetti. Nessuna natura intrinsecamente libera si ribella a ciò e non c’è nessun fiorire radioso di soggettività a farsi beffe dell’oppressione: l’umanità che resiste al deserto è quella che conosce l’ubicazione dei pozzi e che sa ripararsi dalle tempeste, non quella che mangia sabbia. Ma conosce la dislocazione delle fonti e sa costruire ripari solo chi l’ha imparato”.

Stefania Consigliere, Antropo-logiche

È difficile fare un resoconto di ciò di cui, per eccesso, non ci si può rendere del tutto conto.

Quindi, come primo punto, questo: il senso di una dilatazione del possibile, della corporeità, dell’intelligenza senziente – avviene quando lo spaziotempo del discorrere si costruisce come volontà precisa di unire corpi e pensieri, cibo e balli, ricerca dell’ekstasis rottura della stasi e analisi rivoluzionaria. Chi ha partecipato a “Sulla soglia” è stata/o attraversata/o da una sensazione simile a quella del guarito: una pienezza nuova, seppure intangibile, inappropriabile, transitoria.

Un eccesso, appunto, che si può tentare di dire a (ma che non si esaurisce nelle) parole: una festa della presenza, dopo il lungo inverno della rimozione. Una presenza ristabilita del discorrere anarchico: l’animarsi appassionato di sguardi divergenti sulla vita e sulla lotta, nel solco di quello che ha scritto Cœurderoy: “non conosco fratelli nella battaglia delle idee”.

Si è discusso dell’importanza del radicare comunità di lotta per farle durare, del non-detto della colonizzazione meridionale e del rifrangersi dei suoi effetti anche dentro il movimento, dei futuri scenari insurrezionali, di scontro, di attacco, di nuove possibili gnosi del sociale e metodologie dell’organizzazione informale, senza mai la volontà di una sintesi, cioè senza (volere) cadere vittime dell’illusione di potere stilare risoluzioni chiare di fronte alla complessità della realtà. Una realtà dai confini incerti di cui non si sarebbe potuto parlare per punti se non si fosse partiti (e ciclicamente tornati) dallo scossone culturale rappresentato dalla gestione militaresca del Covid19, in un confronto tra questa “nostra” apocalisse culturale e quelle che il dominio occidentale ha storicamente imposto ai mondi entrati nell’orbita delle sue conquiste coloniali; di questo passaggio, della sua dismisura, si è parlato non con la pretesa di potere risolvere a parole ma come di qualcosa che d’ora in avanti farà parte del nostro modo di essere umani al di qua del linguaggio, al di sotto dell’esperienza; ma, visto che non vogliamo darla vinta ai torturatori, il minimo che possiamo fare è non dimenticare i fatti, né le responsabilità, né gli obiettivi. A coagularsi è stata la necessità vitale di lanciare uno scandaglio nel buio di abisso dell’isolamento di tutti e di ognuno/a, la coscienza che contrastare l’orizzonte di atomizzazione della società digitale è la condizione necessaria per riappropriarsi delle nostre possibilità di prospettiva in quanto umani e in quanto anarchici. Una piccola prova è consistita nel vedere riaccendersi le parole e i corpi dei contadini, dei pastori e dei paesani amici nostri, al contatto con le parole e lo spirito anarchici – un riaccendimento che ancora echeggia e che sta a noi compagni locali non fare ripiombare nella solitudine spegnente.

Sarà, forse, rimasto deluso chi cercava da questa due giorni una terapia immediata dell’assenza.  Non è un caso: i rivoluzionari non possono essere dei proclamatori di parole di fuoco che non toccano mai il cuore pallido della vita che impallidisce ogni giorno di più di fronte al rischio concreto e spettacolare di olocausti nucleari e dell’incapacità del basso di reagire. Semmai, la capacità nuova che ci è richiesta è di sapere interrogare quel pallore di superficie, saperne riconoscere le presenze: è a partire da un nostro ristabilito territorio di senso e di scambi, attraversato (e attraversabile) dagli altri oppressi, che potremo allargare gli orizzonti del possibile; ma è altresì vero, e non da oggi né dall’altro ieri, che migliori condizioni di respirabilità per gli esseri si possono dare dopo una rottura, più o meno approfondita, della trama quotidiana capitalistica: cospirare per respirare insieme. Eppure, a queste latitudini, sentiamo quanto queste rotture possano avvenire in ogni momento e a quel punto si tratterà “solo” di esserci a lavorare per allargarle; è infatti sul piano dell’esserci, dell’essere presenti a noi stessi, che bisogna forse dedicare sforzi e attenzione.

Dal punto di vista teorico cosa regala ai nostri spiriti erranti questa due giorni di discussioni e convivialità? Innanzitutto la coscienza (piena e posteriore) di cosa voleva essere: uno spazio di cura e un banco di prova pratico per dimostrare a noi stessi di essere ancora all’altezza delle nostre idee: l’autogestione dei pasti e dei lavori tra liberi e uguali; la capacità di mantenere una certa atmosfera di presa bene e reciproca amorevolezza non scontati considerando che il gruppone che ha predisposto il tutto ha condiviso sforzi e quotidianità per cinque giorni (non proprio pochi tra chi, fino a quel momento, non si era mai vissuto così intensamente); sul piano dei dibattiti, la coscienza di non ricercare solo e tanto l’analisi a breve raggio delle linee di faglia, dei punti di rottura possibili, ma di volersi porre già oltre, dove i punti di applicazione della rivolta avranno fruttato allo sguardo la possibilità di ricreare condizioni di vita, e ai/alle rivoluzionarie il senso del dovere essere in questa possibilità. Una follia forse, ma nessuno può essere certo che il poter discutere tra noi a fondo e con agio si dia nei tempi prossimi venturi. Altri spunti. Il nuovo terreno di contesa dello scontro in atto è la definizione (che il tecnodominio trasforma permanentemente in terreno di conquista coloniale) dell’umano. L’ideologia transumanista del sistema, dal suo canto, tende a naturalizzare la visione meccanicista del corpo caduco della specie (da monitorare con la telemedicina e da aggiustare con i ritrovati convergenti delle nano-biotecnologie), la costruzione atomistica e razionalistica dell’individualità e della sua psiche, la gestione centralizzata e tecno-militare delle sciagure industriali e dei conseguenti sconvolgimenti sociali.                                                                                         Si pone l’importanza di collocarsi anche su questo orizzonte di scontro: cioè il sapere dire sapere difendere (e il sapere difendere per continuare a poterlo dire), dal canto nostro, qualcosa sulla vita della specie. È un compito arduo perché deve fare i conti con un lavoro etico (uno sforzo, cioè, sia di teoria che di passione) di apertura e chiusura: chiuso abbastanza da tenere fuori i varchi che i totalitarismi in particolare la sua forma attualmente in voga, il transumanesimo tecnocratico potrebbero sfruttare per recuperarne senso e portata; ma aperto abbastanza da potere includere tutte le forme umane dello stare al mondo che il dominio totalitario ha schiacciato e schiaccia per affermarsi e che raccontano di altre possibilità di vita; e, ultima ma non ultima, una visione che possa essere uno strumento pratico di rivoluzionamento della vita, cioè essere comprensibile dalla più vasta area possibile di umanità oppressa, per riappropriarsi della propria vera guerra, disertando quelle fittizie e terribili dei dominanti.

È chiaro per chi ha organizzato la due giorni che un simile compito non possono svolgerlo i/le rivoluzionarie nel chiuso delle loro stanzette, cioè nei posti in cui ci relega la società che vogliamo distruggere. Ed è altrettanto chiaro che nell’indisponibilità di lotte attuali, diventa difficile, se non impossibile, intravedere in nuce le caratteristiche della vita per cui ci battiamo, in quelle stesse esperienze di cui soffriamo l’assenza. Per questo, quindi, abbiamo scelto di parlare di civiltà contadina. Non siamo così ingenui da pensare che una forma di vita si possa ricreare semplicemente rievocandola o per decreto della volontà; inoltre, sappiamo quanto alcuni aspetti della civiltà contadina siano indigesti da un punto di vista libertario, perché con essi ci scontriamo quotidianamente vivendo in mezzo alle scorie ideologiche che, non a caso, la società del capitale ha fatto sopravvivere alla sua estinzione.

Pensiamo però che tutte le teorie della rivoluzione germinino nel terreno della storia, ossia dalla capacità di lavorare in maniera inedita e liberatoria materiali, più o meno esposti, più o meno sotterranei, a disposizione dei soggetti incarnati e storici che vogliono una trasformazione radicale della vita.

Ma qui, forse, ci stiamo spingendo oltre. Nel…

…resoconto di ciò che è rimasto in sospeso

Ci sono stati diversi termini ricorrenti nel corso di questa due giorni, alcuni, come “attacco” e “comunità”, hanno più volte tracciato la direzione degli scambi, del confronto, dello scontro vivo. È significativo che dalle trame di un tessuto complesso come quello che ha voluto intrecciare presenza al mondo e apocalissi al sud, seguendo le tracce più o meno visibili e vive della civiltà contadina, si siano immediatamente condensati questi due scogli attorno ai quali i flutti del dicibile e del non-dicibile si sono mossi, spinti da sguardi acuti, menti e cuori aperti, volontà di scovare non segnate vie. Dice della compagine umana presente: anarchici del nord, anarchici del sud, curiosi scomodi nella “vita” così com’è (o non è), contadini, “paesani”, compagni che lavorano nell’accademia ma accademici non sono (compagni sì).

La disposizione delle sedute ha orientato i corpi, dunque, influito su qualità e contenuti degli interventi e ha più o meno coscientemente avuto a che fare con un atto fondativo, transitorio nel tempo della quotidianità ma capace, forse, di permanenza in quanti hanno partecipato, condiviso, attraversato questa particolarissima soglia: il cerchio che è stato definito “magico”. Al centro del nostro cerchio, a differenza di villaggi o paesi, non c’erano né un palo, né una capanna o una chiesa, nemmeno un fuoco, ma un grande spazio vuoto. Sul quel vuoto ci siamo affacciati, con attenzione e senza timidezza, e il nostro volgere le spalle a ciò che ci è nemico – il mondo fuori così come lo conosciamo – è servito a lasciare emergere. Rimossi, non detti, tabù, possibilità, interrogativi dalle forme più interessanti. Se il centro non esiste e la periferia è un concetto da colonizzatori e colonizzati, questo vuoto attorno al quale danzare è somigliato a quello stirneriano nulla sul quale fondare la propria causa.

Ciononostante, di tutte le questioni in campo, una è rimasta poco indagata o compresa ed è stata quella sulla civiltà contadina. Di questo mondo e modo umano si è parlato riducendolo a una limitante “riscoperta dei saperi” che, come l’intervento di una compagna ha sottolineato, è un processo recuperato e recuperabile dal sistema. La scelta dei termini non è casuale e tradisce un approccio tutto occidentale nell’isolare e separare il “saper fare” da un “saper (di) essere” e in aggiunta, un generico “riscoprire” che trascura di indagare cause e ragioni della perdita di contatto: che l’emigrazione abbia, tra le sue conseguenze, una difficoltà che rasenta l’impossibilità del tramandare pare affermazione banale, ma di fatto così è stato e continua ad essere. Come, nonostante ciò, qualcosa di un mondo condannato all’estinzione sia sopravvissuto, è invece cosa meno banale sulla quale riflettere. Ci sono ragioni storiche che hanno concorso alla distruzione di quel mondo, alla rescissione dei legami che lo tenevano insieme, vivo; e se non abbiamo difficoltà ad individuarle e analizzarle quando si presentano in un altrove geografico, tendiamo a ignorarle quando si parla di Sud Italia e civiltà contadina, relegando entrambi questi “luoghi dell’alterità” in un profondissimo pozzo d’acqua stagnante. Sarebbe un’ulteriore ingiustizia ignorare i morti che il dominio non ha esitato a mietere in queste terre per sradicare, con la violenza propria del colonialismo, un intero mondo. Dimenticheremmo le fucilazioni dell’esercito piemontese, che ha condannato a morte gli abitanti di interi paesi (giovani e vecchi, donne e bambini, in fila contro un muro) per “controllare” il fenomeno del brigantaggio; la folla di bambini col cranio sfondato da un forcipe nelle mani di medici dotti venuti a rimpiazzare le ignoranti levatrici; l’umiliazione delegittimante di rabdomanti, erbuarie, bambini infatati, tutta la violenza che è stata necessaria per cancellare, rimuovere, sottomettere, convertire. La stessa violenza coloniale per cui si condannano oggi centinaia di indesiderati per reati che solo qui diventano “associazione mafiosa” legittimando l’esistenza del 41bis.

Tornando all’emigrazione, questione che i meridionali sanno e accettano per lo più come un destino, potrebbe essere interessante interrogarsi sull’altra faccia della luna e cioè sulle ragioni di chi non emigra. Il tentativo di quanti rimangono crediamo si accompagni a uno spirito di appartenenza che non si risolve né nella famiglia, né nella paura dello sconosciuto, né nel provincialismo. Ha a che fare con ciò che nelle discussioni è rimasto in ombra o non colto ed è stato sintetizzato (con importanti perdite e malintesi) col termine “comunità”. Ciò che le tracce della civiltà contadina ci suggeriscono parla di un modo assolutamente altro di stare e fare mondo; un diverso rapporto con le proprie mani, che fanno sì “per sé” ma dove “l’altro” entra nello spazio delle linee che ne solcano il palmo: quella solidarietà descritta da Moffo come “fatto naturale” che è necessità sapiente del tenersi insieme dal quale dipende la vita. Come dalla cura e dalla fatica che questa cura comporta – della terra, degli animali, delle piante, degli alberi, di un ecosistema di cui si è, come umani, parte integrante – dipendeva la vita. La propria insieme a quella della collettività. La relazione con l’invisibile, l’abilità di lavorare con le forze che concorrono alla presenza nel mondo, stabilendo equilibri, provocando squilibri, decidendo lo stare bene o lo stare male del collettivo e del soggetto che vi appartiene, è un altro aspetto, difficile da trattare per i paradigmi che ci decidono come soggetti moderni, ma che ha molto da suggerire a quanti si pongono in lotta contro l’esistente. Che questo aspetto di “mediazione” fosse anche una forma di cura, ce lo raccontano ancora, qui, le voci di chi ne è stato testimone e di chi, ancora, possiede tali saperi (pur avendo perso senso e potenza, essendo questi legati a doppio filo con ciò che il mondo intorno è). Ha a che fare con la memoria, la presenza. E nel rapporto con la morte si intravedono le radici di una civiltà. Quella moderna, ha dimostrato la propria inadeguatezza (sintomo di una psicopatologia che è di fatto una delle basi sulle quali si è costruita) in modo spettacolare durante gli anni della gestione pandemica.

Una riflessione sulla tortura, a tal proposito, è stata preziosa e andrebbe approfondita; sulla scia di F. Sironi, è stato individuato un nodo, un rischio comune al meridionale che emigra e al militante che lotta oggi: lo spiantamento. Il sistema produce torturatori scegliendo tra le proprie fila gli spiantati, coloro cioè che non hanno più legame alcuno con la propria terra, i propri affetti, il proprio mondo, tutto ciò che può essere radice. Quella del radicamento è dunque una questione che si oppone al monismo moderno che costruisce individui (o dividui come soleva sottolineare Coppo) che bastano a se stessi e che scambiano tale separatezza per una forma di libertà.

Un passaggio, dell’intervento di Moffo, ha racchiuso (o aperto) quell’essere altro che non ha niente a che fare con le ideologie ma dice di una “comunità dello spirito” che invece, quella sì, ci riguarda: nel parlare dei contadini abbraccia con un Noi la Sicilia e il Perù, lasciandoci stupiti, scossi e commossi dalla potenza tellurica di quel Noi. Come immaginare un Noi che ci comprenda oggi, nel regno della sovrana “scienza della disperazione”, quel noi tutto da costruire, è un’ulteriore scommessa, un meraviglioso e necessario azzardo; tra le qualità che non dovranno mancare: la curiosità (dell’Altro, umano e non, dei suoi mondi, dei molteplici modi), il rimanere aperti a ciò che l’oceano dello sconosciuto ci porterà (o strapperà) in grembo, la disponibilità alla deriva a fronte della chiusura d’orizzonti, l’inflessibile volontà non di vittoria, forse neanche di riuscita­, ma di mantenere – sempre – vivo il movimento.

Sulla Soglia: due giorni di discussioni in Sicilia su Sud, Civiltà contadina, Apocalisse culturale e Cosmovisioni, Rivoluzione

È la pluralità dei mondi a garantire che quello che abitiamo non si chiuda in un orizzonte totalitario.”

Ho un ricordo ben preciso della prima volta che ho incontrato un mondo umano davvero per me altro, cogliendone appieno le particolarità. Anni ’70 del secolo scorso, altopiano di Bandiagara, Mali, Africa. Arrivati la sera quasi al buio seguendo la pista di carretti tirati da asini.

Accampati bene in vista, su un’altura in prossimità del villaggio (non si entra in casa d’altri senza dare il tempo a un primo incontro sulla “soglia” necessario per condividere informazioni e intenzioni).

Non si accede col buio, si entra alla luce del sole. (…)

Non era certo un mondo felice, libero da dolore, fatica, malattia, prepotenze, malignità, malefizi, umiliazioni. Ma era un mondo umano, costruito cioè da umani in relazione attenta con ciò che li circonda. Da umani proprietari (artefici e responsabili) del loro mondo.

Stefania Consigliere, Piero Coppo, Cose degli altri mondi

Del dolore di questa epoca, appena battezzata nell’Avvento Pandemico, è impossibile non avvertire la minaccia. Catatonia, depressione ciclica, senso di esaurimento delle forze, impennate di suicidi, tutto il malessere che si continua a recludere nella categoria scricchiolante della psicopatologia, sono il segno di esalazione dell’umano, man mano che il regime del mondo-macchina sembra chiudere il suo sipario algoritmico sulle esistenze.

Un’espressione pregnante, almeno per chi scrive, ha circolato nelle aree del pensiero critico per dare conto dei cambiamenti in corso: apocalisse culturale. Apocalisse culturale per chi? Certo non per il dominio tecno-capitalista, per la sua cosmovisione e per la sua utopia totalitaria in via di realizzazione. Sicuramente, per tutte quelle aree culturali che si sono pensate come altre rispetto al capitale – inteso qui come rapporto sociale – e per le quali è stato uno scossone significativo intuire quanto poco si avesse da obiettare allo Stato e al dominio nelle mosse di conquista di ciò che era rimasto relativamente estraneo al loro campo d’azione: i corpi di tutti – cioè il corpo della specie –, i meccanismi fragili e misteriosi della vita, quegli scampoli autonomi di socialità interrotti per decreto. Un brivido di apocalisse ha attraversato chi ha visto il movimento radicale vacillare nella critica e nel sabotaggio del lockdown, del coprifuoco, della vaccinazione obbligatoria e del green pass. Il rischio di apocalisse culturale quindi lo viviamo noi, lo vivono tutte quelle soggettività anomale della storia d’Occidente, più o meno sovversive, che nel frangente in cui squilla la campanella totalitaria, sono costrette ad una scelta fondamentale: dentro o fuori. Lo ribadiamo, un dentro/ fuori tutt’altro che metaforico dal momento che l’idea che lo Stato può disporre dei corpi non è più un tabù a livello generale.

E se non volessimo discendere le chine ripide della rimozione? Se volessimo spezzare il sortilegio che impone di sacrificare la propria energia vitale al retto funzionamento della macchina?

In questo bilico, c’è dell’altro, dell’ancora: ci sono i tentativi, umanissimi, di mantenersi a galla e di rinculare il crollo facendosi forza nelle relazioni, c’è la voglia di non abdicare all’intelligenza e di solcare con lo sguardo orizzonti rimasti in ombra anche nel discorso rivoluzionario.

Della sofferenza, del senso d’impotenza, delle trappole tese al cammino di chi tenti un’uscita dalla strada maestra, ci sembra necessario occuparci. A guidare questo sforzo c’è il senso della necessità di un trattenere e di un lasciare epocali.

Da un lato, c’è un patrimonio che, come è stato scritto altrove, rappresenta al contempo un distillato teorico nell’alambicco delle esperienze storiche e un pluriverso di possibilità inesplorate (o parzialmente esplorate) di nuova vita. La critica anarchica dello Stato e del dominio, i metodi anti-autoritari di auto-organizzazione, la conflittualità non mediata e la solidarietà integrale tra gli insorti e con i colpiti dalla repressione, il mutuo aiuto tra gli/le oppressi/e, sono assi del nostro orientamento che nessun diluvio potrà, né dovrà, affondare.

Dall’altro c’è l’urgenza di una riflessione sulla direzione dello sguardo, una proposta di inversione di rotta che può suggerire un’altra lettura del mondo cui apparteniamo, della storia che lo ha costruito. La piega dell’indurimento culturale indotto dal dominio totale del capitale appare inesorabile guardato dai “centri” di irraggiamento. Non conviene allora, agli sguardi che non si piegano, cercare le possibilità di essere-nel-mondo, di fare-mondo, tra le increspature e i margini?

Lo spazio da cui il nostro sguardo si volge è il Sud.

Cos’è il Sud (d’Italia e non solo)? Per chi decide di lottare è una determinazione primaria, al punto che non ci si può immaginare compagn* al di là delle esperienze, marchiate a fuoco nella coscienza, che qui si sono vissute: separazioni, emigrazioni, violenza istituzionale e miseria del vivere, ostentazione dell’ingiustizia, puzza mortifera di patriarcato. A livello storico-sociale il Sud è la pagina nera della storia della nazione. Un fondo costante di terrore e violenza padronale e di Stato ha spianato la strada allo sfruttamento, ai tormenti e all’estrattivismo più esasperati. Già Zino Zini, all’inizio del secolo scorso, scriveva che lo Stato italiano non poteva sussistere senza il reclutamento costante di gendarmi, amministratori e burocrati al Sud, a indicare che le classi dominanti sono state in grado di creare e sfruttare a proprio vantaggio molte contraddizioni (“I nipoti di chi fu Brigante saranno Carabinieri, sarà un ferita aperta sotto l’acqua ed il sole”, dice una bella poesia di Luigi Ceccarelli, cantata da Lina Sastri).

Un’enorme rimozione a cui ha contribuito tutta la sinistra storica, intenta a farsi governo e Stato. Non è un caso, infatti, che al non detto sulle violenze dello Stato si sia accompagnato l’imbarazzo verso l’indagine delle forme di vita e dei mondi culturali della civiltà contadina del Sud (anche su questo fronte, dirigenze e segreterie di sinistra hanno gestito con una logica di “riduzione del danno” tanto le teorizzazioni del Gramsci “meridionalista” quanto le successive ricerche di Ernesto De Martino). Perché la memoria bandita sarebbe potuta tornare a dire che il nostro, lungi dall’essere l’unico mondo possibile, deve al genocidio degli altri la sua alba: un mondo di fantasmi tenuto dietro-sipario nella quotidianità scandita dalla colonizzazione dell’immaginario.

Eppure, tra spiagge e montagne spopolate e il fiume di soldi in arrivo dal PNRR per farne meta per ricchi e annoiati, qualcosa spinge e scalcia. È la traccia – fragile e residuale, ma ancora visibile – della civiltà contadina dell’entroterra di montagna: è sguardo e mani di secoli di generazioni nella costruzione di un orto, nel mantenimento del giardino, di quel (pre)proletario sapere fare tutto da sé; è un rapporto diverso col passato, coi morti e coi vicini.

Attraversare altre cosmovisioni, altri mo(n)di umani è, per noi, una possibilità aperta al lasciarci trasformare a partire dalle nostre soggettività moderne.

Vogliamo, quindi, interrogarci se questo mondo in via d’estinzione abbia qualcosa da suggerirci, se nuove complicità e prospettive possano prendere slancio nell’incontro con esso, se qualcosa covi ancora o se delle fiammate prodotte in passato sia rimasta solo cenere.

Si pone insomma la questione della rivoluzione, parola che incute pudore e, forse per questo, lasciata per troppo tempo alla lingua biforcuta dei pubblicitari. La migliore critica radicale ha saputo, con anticipo di decenni, cogliere il movimento storico della civiltà occidentale nella sospensione tra i poli dialettici della rivoluzione e dell’apocalisse. Oggi, in molt* siamo in grado di vedere l’apocalisse nel quotidiano, in pochissim* le possibilità della rivoluzione. Eppure sentiamo quanto la rivoluzione sia necessaria per proteggere l’amore, la dignità e tutto ciò che rimane di bello in noi e nella vita. Servono l’impensabile e l’indicibile per dissolvere la pesantezza d’acciaio dei rapporti dominanti.

Il termine rivoluzione indica anche la rotazione intorno al proprio centro. Chissà che non sia il ritorno al fuoco delle origini dell’anarchismo italiano – i tentativi insurrezionali dei primi internazionalisti mutuano molto delle forme di lotta e della mentalità dei moti contadini – ad arridere alle prospettive di liberazione di oggi; chissà che due amanti, rimasti distanti troppo a lungo, non possano ancora generare l’inedito.

In questa due giorni, più che risposte a levarsi saranno questioni e interrogativi. Sarà, crediamo, proprio il loro intrecciarsi ad essere prezioso, come crediamo sarà prezioso il co-abitare uno spazio costruito perché sia luogo di confronto, quindi luogo di cura.

Che le relazioni, che abitiamo e che ci fanno, siano, possano e debbano essere spazi di cura – in un ecosistema che oltre al sé e al noi con-prenda ciò che vi partecipa a prescindere dal nostro “saperlo” – è infatti un senso ulteriore che ci ha fornito la spinta a proporre e organizzare questo incontro.

Un incontro i cui fuochi tematici si alimentano a vicenda e che ci auguriamo possa avvicinarci alla soglia di un altrove e di un altrimenti.

Indicazioni pratiche (IMPORTANTE!)

L’iniziativa si svolgerà nel territorio di Polizzi Generosa (PA). Il modo migliore per arrivare nel luogo che ci ospita è in macchina. In alternativa ci sono dei bus da Palermo per Polizzi Generosa (Sais Trasporti è il nome della compagnia che effettua la tratta).

L’area campeggio è un uliveto di bassa montagna, in cui sono allestite delle compost toilets e sono presenti dei punti acqua.

Porta il materiale da campeggio di cui necessiti; inoltre, porta una tazza/bicchiere (piatti e posate li troverai qui), luci e/o frontali sono necessarie (nell’area campeggio non c’è luce elettrica).

Sulle condizioni meteo, grande è il dubbio: solitamente (sempre che questo avverbio abbia ancora valore d’uso) a inizio ottobre le temperature diurne vanno sopra i 20/22° gradi e le notturne non scendono sotto i 15°. C’è il rischio pioggia: equipaggeremo l’area delle discussioni, dei pasti e del campeggio, in modo da essere vivibile in condizioni di pioggia non violenta (Mahatma Gandhi, patrocina le nostre piogge!).

Le condizioni ecologiche del luogo richiedono di lasciare a casa il cane; cinghiali, daini, cani dei vicini, vicini con pecore e/o capre, sono qui intorno a noi, la convivenza sarebbe difficilissima.

Per le caratteristiche del luogo e per ragioni organizzative, chiediamo di comunicare entro una settimana dall’inizio della due giorni, l’intenzione di venire e il numero di persone se ci si muove in gruppo.

Saranno disponibili dei tavoli per allestire uno spazio distribuzioni.

PROGRAMMA

1 Ottobre

Mattina Arrivi

ore 13:00 Pranzo

ore 15:00 Discussione: “Apocalisse Culturale/Cosmovisioni – Civiltà contadina: storia, presenza, eredità, possibilità”

ne parliamo con Stefania Consigliere e Moffo Schimmenti

ore 21:00 Cena

ore 22:30 Libere Corde – Concerto

2 Ottobre

ore 8:00 Colazione

ore 10:00 Discussione: “Il Sud: terra di conquista, rimozioni, colonizzazioni e….”

ne parliamo con Giuseppe Aiello

ore 13:00 Pranzo

ore 15:00 Discussione: “Il sentimento, la storia e le storie della Rivoluzione”

ne parliamo con alcuni compagni della redazione de “I giorni e le notti”

ore 21:00 Cena

ore 22:30 Proiezioni, musica, danze sfrenate e quello che ci va

Per info e comunicazioni:

scirocco@autoproduzioni.net

strettolibertaria@inventati.org

+39 3896062784

+39 3285749333

Osservatorio “Fly eye” sulle Madonie: la scienza al servizio dell’estrattivismo minerario spaziale.

Qualche settimana fa è stato dato via libera alla costruzione dell’Ossevatorio astronomico su Monte Mufara. (è stato cioè approvato il c.d. VINCA, la valutazione di impatto ambientale del Parco). È avvenuto senza troppi schiamazzi, cioè senza quella minima reazione di critica e protesta che ci si poteva aspettare dalle associazioni e dai gruppi che avevano organizzato qualche mese fa una marcia sul tema. Infatti era una marcia di informazione, una elaborazione preventiva e collettiva di un lutto dato per compiuto (questo è il ruolo della finta critica e del riformismo: l’impotenza consolatoria del “almeno ci abbiamo provato”).
Questo silenzio collaborativo in fase di realizzazione è d’altronde coerente con il lavoro di occultamento e spostamento precedente, funzionale non solo al progetto specifico, anche al mondo che lo produce. I discorsi e le parole spese “contro” erano sommariamente queste: il cemento per costruire l’osservatorio è brutto mentre la scienza che si costruirà là dentro è sempre bella e buona. Lo scientismo e il progressismo, come tutte le religioni, non prevedono spirito critico, solo adesione cieca e incondizionata.

Scostando di poco la cortina fumogena e abbassando il volume delle omelie, si capisce qual è il nobile obiettivo del Fly eye: studiare la cintura di asteroidi orbitanti intorno a Marte, certo, ma per assicurarsi un vantaggio sulla guerra inter-capitalistica per le risorse rare di cui pare alcuni asteroidi siano ricchi. Ne emerge insomma una scienza al diretto servizio delle multinazionali hightech.

Nel link che alleghiamo sotto si trovano alcuni interessanti articoli che divulgano le idee di alcuni scienziati sulla fase successiva, una volta accaparrata la proprietà dell’asteroide (lo diciamo di passaggio ma bisognerebbe urlarlo: nel clima di tensione globale crescente chi può escludere che questa altra guerra della merce esca dal mondo delle metafore per entrare in quello dei cannoni?).

Un’idea di alcuni ricercatori è di “agganciare” l’asteroide mettendolo in orbita attorno alla terra per potere mandare space shuttle estrattivi: c’è il rischio che non funzionerà e che precipiti sulla Terra, però se tutto va bene qualcuno si arricchirà molto.
In conclusione, conviene riportare le parole usate dai vertici del Parco nella relazione autorizzativa: “nessun impatto ambientale”.
La palese menzogna del caso specifico viene surclassata dalla verità che ad impattare enormemente è l’intera mega-macchina tecnica e capitalistica dominante. Una macchina distruttiva non solo dell’ambiente ma del senso e dei sensi, fino al cuore della capacità di ragionamento che sarebbe, dicono, il tratto essenziale della nostra specie.
Nel frattempo, in basso, molto più in basso del cielo della Scienza, dell’Economia e della Tecnica, la Terra brucia.

Alcuni link per approfondire:

-https://www.madoniepress.it/2022/06/18/fly-eye-arriva-il-parere-del-parco-nessun-impatto-ambientale/

-https://notiziescientifiche.it/due-asteroidi-contengono-piu-nichel-cobalto-e-platino-dellintera-terra-e-sono-anche-vicini/amp/

-https://notiziescientifiche.it/qualcuno-vuole-avvicinare-gli-asteroidi-alla-terra-metterli-in-orbita-e-sfruttarli/amp/

Incendi. Il problema non è il fuoco, è come lo si usa

È cominciata prima dell’anno scorso la maratona degli incendi sulle Madonie, in particolare, nella zona di Polizzi, una decina negli ultimi 3 giorni. Nell’ultimo, appena spento in contrada Scannale, il fuoco ha potuto contare sull’appoggio combustivo degli pneumatici e della plastica lasciata a bordo strada dall’organizzazione della Targa Florio, rally intoccabile come tutte le iniziative che vedono stronzi coi soldi come protagonisti. Infatti il Comune di Polizzi con l’attuale amministrazione ha speso centinaia di euro in banner di ringraziamento e di benvenuto. La stessa amministrazione che è evidentemente non pervenuta nel richiedere la rimozione della monnezza; la stessa amministrazione che in campagna elettorale aveva fatto della questione rifiuti un cavallo di battaglia da campagna elettorale- il tutto in una situazione attuale in cui se un/a disgraziato/a butta l’immondizia fuori orario viene multato/a.
Comunque, a volte l’epifania arriva in forma di incendio: l’utilizzo usa e getta del territorio, la logica mercantil-spettacolare di chi sfrutta e poi lascia le scorie – e dei politici che la sostengono- sono degli alleati oggettivi di chi devasta a mezzo incendio: il profitto è il cuore di un mondo senza cuore. A dare conforto agli animi degli abitanti e al territorio è invece, quest’anno come lo scorso,la generosità e la prontezza di chi si autorganizza per spegnere gli incendi, di chi pensa alla casa e al bosco senza soluzione di continuità.

Nuovo opuscolo in uscita

E’ uscito, a cura della redazione di questo blog, l’opuscolo “Capitalismo resiliente. Uno sguardo siciliano su estrattivismo e nocività del new green deal”.

Ecco il link per scaricarlo: CapitalismoResiliente

Per chi volesse richiederne qualche copia, basta scrivere alla mail: scirocco@autoproduzioni.net

Il costo è di 2,5 €  a copia più eventuali spese di spedizione. 

Riportiamo qui di seguito due testi introduttivi, utili a farsi un’idea dei contenuti. 

Accattativillu! 

Il lavoro raccolto in queste pagine, ha trovato il suo slancio iniziale nella volontà di fornire strumenti di analisi e di critica che potessero concretizzarsi in forme di resistenza attiva delle popolazioni locali contro l’eventualità di un deposito permanente di scorie nucleari, la cui costruzione è stata annunciata un anno fa, in pieno periodo di emergenza sanitaria (e non a caso, proprio quando le strade svuotate con la paura del contagio prima, e della repressione poliziesca poi, avrebbero e hanno permesso l’avanzare senza ostacoli, di una serie di progetti mortiferi, 5G compreso) con l’elenco dei siti candidati ad accoglierlo. Ci è parso allora necessario e urgente muoverci a prescindere dalla ricaduta effettiva del sito sul territorio che abitiamo, per avere il tempo utile ad allargare gli orizzonti, tessere nuove complicità e prepararci alla lotta.

L’opuscolo non ha visto la luce per vari incidenti di percorso, ma a distanza di un anno, con lo scoppiare di un’ennesima Guerra che minaccia, stavolta, di farsi “mondiale” pensiamo che il materiale messo insieme e rivisto, rimanga valido nelle sue premesse, e utile nel contribuire allo slancio necessario a uscire dalla passività e rischiare, ancora e sempre, il tentativo della liberazione.

Introduzione

Siamo convinti che qualsiasi agire abbia bisogno di prospettive concrete per manifestarsi. E che la prospettiva di chi vuole liberarsi non può non partire dall’analisi delle strutture del dominio, tanto in una dimensione temporale quanto in una spaziale e geografica.

Sul primo punto, se proviamo a leggere cosa ci riservano i piani del potere per il futuro, vediamo l’accentuarsi ad un ritmo esponenziale della natura energivora e biocida del sistema capitalistico. Se non si guarda con occhio ideologico, appare evidente come TAV dappertutto, 5G (ossia una connettività da 1 GB/sec), data center, e una lunga lista di eccetera, comporteranno un aumento enorme della quantità di energia richiesta.

La cornice concettuale che adottiamo è quella dell’estrattivismo, termine proposto da Ràul Zibechi, per descrivere le politiche di rapina del capitalismo globale ai danni del Sud del Mondo. A chi storcerà il naso per l’utilizzo indebito di questa categoria riferita ad una regione periferica d’Europa, rispondiamo che l’enormità dei cambiamenti in corso stanno avendo, questa è la nostra opinione, conseguenze anche sulle geografie dello sviluppo e del sotto-sviluppo e, quindi, sulla distribuzione della violenza sottesa. Vogliamo anche spingerci oltre: è per effetto di una vera e propria manipolazione ideologica che le regioni del Sud Italia non vengono considerate colonie interne, ieri d’Italia e oggi d’Europa.

Se la presenza delle scorie non è scindibile dalla produzione di energia, non può bastare, oggi, opporsi alle nocività già prodotte nei cicli passati. Occorre anche riconoscere il processo a monte, cioè criticare (e agire contro) la presunta neutralità della dichiarata “necessità di energia”.

Il lavoro che segue vuole essere un aggiornamento ed un strumento in prospettiva, per chi ritiene che riprendere le ostilità verso un sistema economico assassino e biocida, coniughi saggezza, istinto di conservazione e passione per la libertà.

Nella prima parte, affronteremo questioni più generali che rimandano, da un lato, al clima di catastrofe che si respira, alla sua difficile governabilità che a sua volta rende centrale e virulento il ricorso delle classi dominanti alla propaganda e alla manipolazione, e a tutte quelle tecniche che rendano continuabile l’accumulazione, costi quel che costi (e infatti, tra gli a rischio estinzione, c’è anche la facoltà umana del pensare, del dubitare)- inquadriamo in questo senso il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Rifletteremo anche sulla centralità, tanto materiale quanto teorica, assunta dai territori in questa fase in cui sviluppo capitalistico, guerre di rapina, nocività crescenti, colonizzazione del pianeta ma anche dell’immaginario e delle interiorità degli/le oppressi/e, appaiono come un tutt’uno tanto terribile quanto fantasmagorico e sfuggente. Come si capisce, i due piani sono per noi intrecciati e, anche per questo, ci sembrano sospese in questo tempo sia occasioni potenziali che pericoli imminenti. È, a parere nostro, compito delle critiche radicali costruire (riappropriarci di) strumenti utili a pensare e ad agire con il fine della liberazione. Qui e là, in questa prima sezione, troverete anche accenni a vicende di oppressioni specifiche siciliane: storie da ricordare come tutte quelle ancora invendicate.

La seconda parte è quella più di inchiesta, qui ci concentreremo su alcuni progetti in corso e in cantiere che modificheranno la fisionomia e gli equilibri ecologici di interi territori (alcuni già devastati). Al tempo stesso, proprio perché la propaganda prepara il terreno materiale delle devastazioni, non tralasceremo neanche qui la critica del suo ruolo nelle vicende raccontate e, in alcuni casi, chi sono i produttori prèt à porter di ideologia al suo servizio.

A fare da rumore di fondo all’interezza di questo testo il sentire, ancor prima del con-sapere, che uno scontro ultimativo tra capitale e possibilità libertarie della frazione occidentale della Specie si sta giocando in questi anni densi di avvenimenti, di bombardamenti e di fumi. Il sentire, quindi, che è più che mai imprescindibile l’affrontare- innanzitutto tra le minoranze agenti, poi chissà- l’effetto ottico e polmonare dei fumi che inquinano i corpi e le menti, per scorgere nuovi, potenziali punti di appoggio dello sguardo, grazie ai quali sovvertire gli avvenimenti già decisi e immaginare una vita radicalmente altra tornerà possibile.