Dalla Francia- La libertà non nasce da un solco*

Riceviamo e pubblichiamo questo testo acuto e irriverente che viene dalla Francia, per il quale ringraziamo la compagna che lo ha tradotto, pensando a noi per la sua pubblicazione (per ragioni di cui diremo più avanti). Si tratta di un testo che ha diversi meriti. Il primo, quello di non cercare adepti: chi scrive parla per sè e, affidandosi alla penna come una lama per andare al cuore delle cose più che per fare ghirigori che piacciano a chiunque legga, scava uno spazio di indagine dove le questioni scottano e nessuno/a può scaldarsi nella sicurezza dei propri focolai teorici.
Il secondo merito è di attualizzare la memoria di un passato recente a rischio rimozione. Qui, infatti, si ripercorrono alcune vicende accadute nel biennio virulento del 20-22, su cui la scure della rimozione si accorda con gli interessi della repressione (e della depressione): l’ondata di sabotaggi che soprattutto in Francia, ma qualcosa avvenne anche in Italia, fece capitolare diversi ripetitori della telefonia mobile e di internet. Essendo questo blog nato in quegli anni, in supporto ad un omonimo giornale di contro-informazione che fu tra i pochi a dare notizia di queste azioni dirette, questa coincidenza ci fa contenti (siamo anime romantiche). Poi, c’è un punto di contatto, infatti nelle righe che seguono ci si addentra in temi su cui, chi anima questo luogo virtuale, ha scritto; se – si capirà senza fatica – le posizioni e i risultati sono molto diversi, ci sembra analogo
l’ethos verso la vita/lotta in cui si mescolano esperienze dirette, passione rivoluzionaria, tensione individuale e storia/storie collettive. C’è, insomma, legna perché questo fuoco continui ad ardere.

* L’articolo è apparso in francese nel primo numero, di giugno 2024, della rivista La Houle. Per richiederne copie cartacee, si può scrivere all’indirizzo bouteillealamer@riseup.net

Note sulla traduzione

Nel tradurre bene un testo spesso non si valuta quanto lo spostamento spazio-temporale possa modificarne il significato, quindi vanno precisate alcune cose.

Questo testo è stato scritto in un contesto particolare : quello della Francia, dove nella scia delle ZAD il concetto di territorio era diventato centrale in gran parte dei movimenti autonomo, libertario e anarchico, e il “retour à la terre” un fenomeno generale, fino a rappresentare un fine in sé. Inoltre era il periodo post-confinamenti, nel quale, dopo aver sentito le cose più strane e contraddittorie venute dagli stessi movimenti, c’era bisogno di presentare il conto.

Ma questo testo non punta a rifiutare ogni riflessione e sperimentazione nell’ambito del territorio e della comunità, opponendovi la sola azione offensiva (pare che chi l’abbia scritto sia pure andato a vivere in campagna…). Intendeva per contro, in un certo contesto, sottolineare che se territorio e comunità servono quale sostituto mitico alle prospettive di lotta e non le appoggiano nei momenti giusti, cioè nei momenti in cui il reale può sorgere dietro al velo dell’irreale, allora sono anch’essi una truffa.


In Italia, il ritorno alla terra ha delle caratteristiche un po’ diverse, per la storia delle migrazioni interne, per il livello di repressione del movimento anarchico, e forse anche perché il modello della lotta territoriale non ho avuto lo stesso peso che in Francia. Ma spesso ritornano le medesime tematiche, e non a caso: esplorare le tensioni tra lotte, radicamento, ma anche spiritualità, è una dinamica già in corso in tanti contesti. Una dinamica spesso spinta da un’ideologia ecologista (molto più che marxista) che cerca di impiantarsi per legittimarsi.

In realtà, da anni la questione del radicamento ci sembra secondaria. Dai monti alle città, la questione sarebbe piuttosto: come rinforzare le offensive che, ben oltre la penisola, puntano la fabbrica dello sradicamento, guerra e tecno-scienza.

E se ci fosse bisogno di una certa irreperibilità? E di una capacità a non aspettare sempre la comunità?

La libertà non nasce da un solco

Risposta a Terre et liberté

Durante gli anni 2020-21, diverse centinaia di ripetitori sono stati sabotati in Europa. In precedenza la pratica esisteva già in maniera sporadica, associata ad una critica al ruolo della tecnologia dell’informazione nei dispositivi di potere. Da allora, si è diffusa e perdura.

Anche se qualche ministro sinistro, alto funzionario di polizia, o magnate della stampa hanno cercato di associarli a delle posizioni strambe, complottiste, antisemite e così via, questi atti sono ormai conosciuti da tutti. Resteranno un simbolo di resistenza durante i confinamenti, e più globalmente un simbolo di rifiuto del controllo tecnologico.

Ciononostante, una gran parte di coloro che esprimono pubblicamente delle critiche radicali è rimasta muta sul tema.

Senza dubbio ha giocato la paura di essere associati al complottismo. E anche la paura di essere associati tout court a questi atti. Ma quando si evita di compromettersi, quando si elude il presente, la radicalità arrugginisce e le critiche rammolliscono. Perché il pensiero si affina quando si scalda vicino all’azione, e si impantana quando se ne allontana. Ancora di più se gli avvenimenti stanno rimescolando le carte delle norme sociali, e la storia prende una svolta più buia. Per pensare liberamente bisogna esercitare la propria libertà. Ora, uno degli effetti del periodo covid è stato proprio il riposizionamento delle tensioni tra libertà, comunità e azione.

1. Terre et liberté

C’è un libro apparso alla fine del 2021 che ha ricevuto un certo successo: non è per la clamorosa novità del discorso, poiché Terre et liberté – questo il libro – non era ancora uscito che sotto molti aspetti era già un po’ sorpassato. Nel 2021 la solfa del ritorno alla terra, della Zad e del Chiapas non era né nuova né indispensabile. Né di scottante attualità.

Il successo del libro riguardo piuttosto il suo lato didattico, e la buona idea che ha avuto Aurélien Berlan – questo l’autore – di definire la libertà degli industrializzati come una volontà di délivrance1. Sì, per un industrializzato – sei tu sono io siamo noi – essere libero è essere liberato dalle fatiche, dalle pene, ma anche dalle malattie, o persino, a volte, dello sforzo di pensare – questo l’aggiungo io. Essere in grado di far fare il lavoro agli altri, altri resi invisibili (poiché ci sono degli schiavi dietro i vostri oggetti tecnologici, se osservate ve ne accorgete), questo sarebbe essere liberi. Almeno per i borghesi versione 3.0 e per coloro che vogliono assomigliare loro. Non dover più agire. Divenire addirittura incapaci di farlo. Per quella gente lì, in fondo, la libertà è non fare fatica, è la pigrizia.

Ma questo non vuol dire che invertendo l’equazione si possa proporre una definizione più pertinente. Orbene, ecco la proposta dell’autore di Terre et Liberté: la libertà, è provvedere ai propri bisogni attraverso una comunità legata alla terra.

Se volete farvene voi stessi un’idea, leggete il libro. Se vi sembra troppo faticoso (attenzione, è un tranello), potete dare una scorsa alla sua recensione esasperata nell’ultimo numero di Avis de Tempête di dicembre 20222, che, purtroppo, ha soffiato un po’ a lato della questione: scandalizzarsi del modo di vita dell’autore e della reputazione delle sue frequentazioni non costituisce una risposta al contenuto. Che l’autore sia un buon anarchico, un pessimo anarchico, o che non lo sia per nulla, in fondo ce ne freghiamo. E non sarà del resto la sua più grande colpa: il suo torto è di non aver saputo cogliere ciò che poteva essere oggi un’idea di libertà opposta a quella di délivrance. Forza, non ci resta che provare a attraversare il pantano.

Nonostante le sue qualità didattiche e le sue buone analisi, questo libro mi ha irritato, con la sua maniera di vedere tutto il bene nella comunità, e tutto il male nelle ipotesi che contemplano altri sentieri. E come amalgama grossolanamente individuo liberale e indipendenza d’azione! Senza l’approvazione della massa, nessuna legittimazione politica? Ogni azione dovrebbe quindi essere allineata ad un movimento? Eppure la realtà, antica o recente, racconta altre storie. Ma non è ancora questo l’essenziale: nel 2020-21, quando scrive il libro e un’ondata di sabotaggi antitecnologici attraversa l’Europa occidentale, durante la quale, bisogna pur ricordarlo, i movimenti come i Soulevement de la Terre hanno brillato per la loro assenza, l’autore non ha visto due cose. Una: non si è accorto che sono avvenute decine di azioni anti-tec, o si è semplicemente dimenticato di parlarne nel suo libro. Strana miopia politica. Due: non si è accorto che la nozione di libertà, dalla fine del ciclo delle Zad e la gestione tecno-medicale delle popolazioni post-covid, ebbene questa nozione di libertà si è ulteriormente spostata. Caramba…

2. Comunità contro libertà

Scrivere, come agire, è una questione di situazione. Se qualche anno fa potevamo ancora percepire delle prospettive comunitarie pertinenti, la pacificazione di Notre-Dame-de-Landes prima, poi l’accrescimento del controllo e dell’auto-controllo dal covid (dietro il pretesto di non contaminare la comunità), sono stati dei rivelatori. Hanno scisso queste due nozioni: libertà e comunità sono diventate estranee. Che sia un microcosmo alternativo o la società nel suo insieme, la comunità confinata e auto-controllata si è alienata la libertà. Per convincersi basta dare un’occhiata alle posizioni dei militanti virtuali come il blog Cabrioles, per l’ “#autodifesa sanitaria”, secondo il quale, poiché il virus attacca i più deboli, contraddire o levare le misure sanitarie post-covid rientrerebbe in una logica da privilegiati, irresponsabili, validisti, e eugenisti (eugenisti perché i malati sarebbero i sacrificati di una selezione del più forte). Tutto questo annuncerebbe un nuovo fascismo. Ma certo. Questi coraggiosi blogger e twittatori dell’estremo, riflesso caricaturale di posizioni tristemente diffuse, prolungano la logica dell’autorità tecno-medicale di Stato, la politica dell’obbligo vaccinale, di sperimentazione biomedicale, di controllo tecnologico. Ma poiché nella loro logica la vittima di un fenomeno ha per forza ragione, dato che è per forza legittimata a determinare come gli altri debbano vivere, arrivano a capovolgere la realtà: l’eugenetica non sarebbe più lo sviluppo di tecniche di manipolazione genetica, o la medicina di massa, ma il fatto di disobbedire all’ordine sanitario. L’individuo dovrebbe rispettare le regole per proteggere la comunità dal male, e la comunità dovrebbe sottomettersi al controllo, pena il generare delle ingiustizie. Ecco qui la posizione dominante dei radicali durante il covid. Tuttavia la posizione media è stata il dubbio, l’inazione e, in alcuni casi, il sostegno alla resistenza anti-tecnologica in corso. Anche se la stampa era riuscita a distillare la confusione sul senso delle pratiche di sabotaggio, nel 2020 apparvero dei testi chiari, come la lettera di Boris3, scritta in prigione nel giugno 2021, che avrebbero dovuto, a quel punto, illuminare gli analisti.

Sebbene Terre et Liberté costruisca una critica della società tecnologica per ridefinire la libertà, l’autore non trae da questi avvenimenti le conseguenze sulla nozione di comunità.

Dai ripetiamolo ancora una volta per coloro che strimpellano sui loro smartphone, li in fondo : la comunità, dopo questo episodio, si è inimicata la libertà. Non per sempre, ma quanto meno per un po’. Bene ma quindi, se non si trova nella comunità, cosa può voler dire la libertà, qui ed ora?

3. Da dove agiamo

Nelle parti del pianeta in cui il tecno-capitalismo è un intruso, in quegli anfratti del mondo dove il capitale e l’industria sono dei fenomeni che vengono da altrove, che tentano di invadere dei territori dove sopravvivono ancora altre culture, là, può essere, esiste ancora una forma di stato di libertà. Una libertà stabilita, continua, geograficamente situata e vissuta, in quanto basata su una comunità, un territorio, una cultura. E anche se non fosse totale, questa libertà sarebbe difendibile, di fronte agli attacchi venuti dall’esterno, come su una linea del fronte. Può essere. Ammettiamo, per puro esercizio mentale, che esista magari un tale stato di libertà, in cui uno possa nascere, vivere e morire, che si possa coltivare, e difendere. Dai, non mi va, ma faccio uno sforzo.

Al contrario, in seno al tecno-capitalismo, e a fortiori in Occidente, il potere è già qui. È diventato immanente, da decenni, secoli addirittura. In Europa, le ultime comunità economicamente autonome, contadine, relativamente indipendenti dall’economia di mercato, sono state disciolte dai massacri della prima grande guerra industriale e dalla modificazione dell’agricoltura che ne è seguita (meccanizzazione, pesticidi, produttivismo). Qui il potere è interno. E non è un’ipotesi. Qui ogni classe, ogni identità, ogni individuo e ogni comunità ricomposta sono ancora, a priori, dei ripetitori, degli hub del potere. Noi non ce l’abbiamo di fronte, noi ci troviamo in terreno nemico, dietro le sue linee. Qui, quindi, la libertà stabilità è necessariamente un’illusione di libertà. Nella realtà, se pensate di essere liberi, o siete dei buoni bio-cittadini potenti, dei borghesi 3.0, e quindi non avete sensi di colpa, poiché la società vi concede un margine di manovra più ampio, vi libera da tutto, generando così il vostro sentimento di libertà. Oppure siete un senza-potere, chiamato a produrre valore tramite il lavoro, la consumazione e la generazione di dati, e che altera la propria coscienza grazie a delle alternative di sintesi, o dei miti riscaldati.

Ma non siamo in Chiapas. Né in Kurdistan, né nella Spagna del ’36.

4. Rottura del tempo del potere

E a mio avviso la più grande lezione degli zapatisti, dei curdi e dei rivoluzionari spagnoli non era il legame tra la comunità e la libertà, ma il legame tra la preparazione e l’insurrezione. Al riguardo siamo molto d’accordo con Avis de Tempete, ed è il piccolo dettaglio della storia sul quale non insistono troppo i rivenditori d’immaginario comunitario, che sentiamo quotidianamente nei giri militanti: per dare vita a queste comunità in lotta ci sono volute delle armi, dei gruppi d’azione, delle reti clandestine, dei rifugi, dei falsari, dei rischi e del tempo, senza parlare dei condannati, delle donne violentate, e dei morti. La libertà non capita all’improvviso, o a forza di nominarla. Si fomenta, si allena, si cospira, e eventualmente si paga cara. Comunque sia, si esercita. La libertà, nel mondo tecno-capitalista, si può solamente praticare. È uno stato di eccezione, una sospensione del tempo del potere. Magari non sarà per sempre così, ma non sembra proprio che stia per cambiare. E se la guerra continua di stendere la sua presa sul mondo, questa situazione rischia addirittura di durare.

Quindi nei territori del potere non c’è libertà che come gesto di liberazione. Qui è l’atto, la temporalità dell’atto offensivo, che libera. Perché è una rottura del ritmo dominante, dell’ipocrisia, e anche una rottura materiale. Una rottura concreta delle infrastrutture del potere. Parziale, temporanea, sì, può essere, ma non immaginaria. Quel momento non è l’istante di godimento per la pietra lanciata, o il fuoco acceso: questa è la concezione patriarcale del gesto eroico. Questo tempo dell’azione offensiva comincia dalle complicità del progetto, è nei preparativi, nei rompicapo tattici e nelle preoccupazioni dell’attesa. È nei colpi di mano di un complice, negli sguardi che fanno affidamento, e nei combattimenti mentali contro la paura. Nelle mutazioni dei ruoli che possono avvenire nel processo. In tutti quei gesti in cui i nostri gruppi, a volte qualche paio d’occhi, si preparano e agiscono contro il potere, frantumiamo dei pezzi di questo mondo, allo stesso tempo in noi e fuori da noi.

Sebbene nasca nella pancia, questa libertà non è individuale, poiché non esisterebbe senza gli incontri magici, senza i complici sui quali appoggiare il proprio coraggio. Ma bisogna ben riconoscere che è limitata: questa libertà degli uni non fa quella degli altri. Palesemente, il fatto che io agisca non porta necessariamente gli altri a farlo. I bravi cittadini non si trasformano in complici come per magia, alla vista di un’antenna bruciata o durante un’interruzione dell’elettricità. Né gli alternativi, o gli anti-industriali del resto, il che è più difficile da ammettere.

5. Coniugare comunità e azione

Se sentite il bisogno di liberarvi in molti, cioè di agire in molti, allora perché fantasticare di una comunità del quotidiano, una quotidianità dell’autonomia in pieno giorno? A parte per colmare la solitudine, qui da noi è un miraggio: non siamo in Chiapas, dovete abituarvi. Bisogna ripeterlo: non siamo ai margini del tecno-mondo, ci siamo dentro in pieno! Noi siamo lui e lui è noi. Qui, l’autonomia e la libertà che si toccano, che si confondono, che hanno senso, stanno nell’autonomia d’azione. È agire con senso e precisione, magari con una strategia, ma senza attendere che tutto il mondo lo faccia, senza attendere che la comunità convalidi. È la libertà nella notte, nella nebbia degli altri.

Ma c’è ancora di peggio: nel nostro mondo, per il momento, una comunità di vita quotidiana e una comunità d’azione possono difficilmente sovrapporsi, coesistere apertamente, poiché presterebbero il fianco ad una repressione feroce. La comunità di giorno è identificabile, localizzabile, e dipendente dalle sue infrastrutture materiali. La comunità di notte dev’essere invisibile, anonima e mobile. La prima sarà tentata di tradire la seconda per sopravvivere, e alla fine saranno spazzate via entrambe. Qui non abbiamo né popolo, né cultura, né antenati da difendere. Nessuna terra santa, nessun isola di Tortuga. La comunità nella libertà, per il momento, è trovare delle persone di fiducia, e con esse il cammino dell’azione. Oppure possiamo continuare a sedarsi con Damasio e Pignocchi4 e Netflix, e illuderci che questo mondo cambierà perché ne immaginiamo un altro. In ogni caso non funziona molto per il momento, sarà perchè non immaginiamo abbastanza intensamente. Questi spacciatori di miti, questi venditori di ecologia di sintesi, o di ribellioni asetticizzate, stanno alla rivolta come il porno sta al piacere: vengono a riempire i vuoti di questo mondo, e poi fabbricano dei mondi vuoti.

Eppure ci sarebbero dei modi di coniugare delle forme di comunità alla libertà dell’agire. Ma questo implicherebbe lo sviluppo di una cultura della resistenza, secondo una formula un poco alla moda. Il coltivare una ganga fluida, opaca e porosa intorno alle cellule offensive. I maoisti dicevano una volta che i rivoluzionari dovevano stare in mezzo al popolo come i pesci nell’acqua? La nostra etica anarchica non ammette una tale boria. E poi il popolo, oggi, è un miraggio: più ci si avvicina, più si allontana. Ma delle comunità potrebbero scegliere di essere per i gruppi d’azione ciò che le foreste sono per le bestie feroci. Certo, nella realtà, quanti sono oggi quei comunardi, quei ritornati-alla-terra, che propongono di aprire le loro porte, le loro dispense, i loro portafogli, o – peggio – le loro agende, a una complicità che potrebbe pure rivelarsi estremamente fertile? Quante sono queste comunità dove si fa esistere una cultura della sicurezza, o dove si valorizza allo stesso modo l’analisi critica e radicale e la cultura del radicchio, e del cavolo? Poca cosa. Perché una tale cultura della resistenza si sviluppi, bisognerebbe per prima cosa prestare un po’ meno l’orecchio agli immaginari in kit, che autogiustificano la comunità nel suo sviluppo materiale e spirituale, e un po’ più agli atti concreti che però, però, sono la parte palpabile, la punta dell’iceberg, la piccola incarnazione nella nostra realtà, di questo grande sogno che noi abbiamo probabilmente, e nonostante tutto, in comune: vedere questo mondo indebolirsi, oscurarsi, e vederne altri che emergono.

Se questo mondo ci lasciasse la scelta se vivere liberi o meno, sarebbe semplice: ci sarebbero due umanità, a sinistra quelli che vogliono la libertà, a destra gli altri, ciascun per sé. Ma non è così. Se ci battiamo contro questo mondo, è proprio perché non lascia la scelta a nessuno. A questo punto, l’alternativa non è una prospettiva. E di fatto le comunità agricole non sono autonome, non possono esserlo all’interno del tecno-capitalismo. Non è nemmeno colpa loro: sono delle piante sradicate, irrigate e connesse ai flussi del grande meccanismo, come tutti. La libertà superficiale che vi gustiamo può talvolta essere un conforto, ma è pur sempre un’illusione di autonomia. Anche a me piacerebbe alzarmi al mattino, macinare a mano il mio caffè (del Chiapas) nella cucina collettiva, poi innaffiare il mio orto, prima di andare a distruggere la fabbrica di armi della città vicina, e tornare mano nella mano a farsi una tisana. Ma non è reale, questo, e non durerebbe cinque minuti. Ci battiamo contro questo mondo con quel che abbiamo, un piede dentro, un altro che cerca un oltre, e la testa incasinata a forza di arrancare tra due realtà.

6. Natura e libertà

Nella tensione che anima l’eco-anarchismo da più di una generazione, tra ecologia sociale e ecologia profonda, un’altra alleanza si oppone simmetricamente alla coppia libertà/comunità: quella della “natura come il binomio inseparabile della libertà5”. È un’altra variante di una concezione della libertà istituita. Il legame tra la natura e la libertà può essere inteso in due modi: la libertà si troverebbe in delle zone rifugio, negli altrove del regime tecno-capitalista, dove la natura si dispiega ancora, dove permette dei rapporti agli altri e a sé differenti. Però, secondo me, non ci sono più degli altrove, oppure sono molto angusti. Non c’è una foresta in Europa che non sia sfruttata, ripiantata, metodicamente cacciata.

Oppure la libertà si troverebbe in un dopo la caduta del regime tecno-capitalista, dove la natura rinascerebbe.

Sì, la natura concepita come la nostra grande casa e non come stock di materia sfruttabile, offrirebbe molte possibilità, se non fosse occupata quasi totalmente dal tecno-mondo. E sì, ci si trova meno costretti che nelle città e villaggi pieni di umani. Ma se trovo molte cose nella proliferazione degli esseri viventi e inerti, non ci trovo le basi di un’etica che possa fondare la nostra idea di libertà.

Salvo, può essere, che ogni esistenza sia limitata in sé ma si prolunghi attraverso gli altri, e che il gioco della libertà sia di fare con questi limiti?

* * *

C’è del vero in ciò che enuncia Terre et Liberté. Certo che l’autonomia, assumere le conseguenze a monte e a valle dei nostri stili di vita, in osmosi con il nostro ambiente, sarebbe una bella idea di libertà. In un mondo in cui fosse possibile. Salvo che non è la questione che si pone a noi oggi. Per il momento la libertà si esercita, o meno, ma non si istituisce.

E anche se tutto questo diventasse nuovamente possibile, allora la libertà dovrebbe essere persino più di questo. Non è forse anche in questo vecchio sogno di vivere tutti senza il giogo e senza le ingiustizie, e il sogno più recente di vivere senza la presenza permanente di un’ostilità macchinica intorno a noi? E senza la presenza della comunità suprema, lo Stato. E senza questa voce, diffusa dal potere, che sussurra dentro ognuno e ognuna di noi: “tu non sei niente”.

Ps: Tutte le critiche fatte in questo testo, anche quelle un po’ veementi, sono sempre fatte con amore. Salvo per Cabriole, non scherziamo. Né per Damasio, ci sono dei limiti. Né per P… bhe, abbiamo la lista, in caso di reclami.

1Il termine usato in francese è “délivrance”, il cui significato abituale è vicino a “liberazione”, ma che ha anche il senso della seconda parte del parto in cui viene espulsa la placenta, “secondamento”. L’autore di Terre et liberté lo usa per sottolineare quanto la libertà dei moderni sia un affrancarsi, un essere sollevato dal peso delle cariche materiali della propria vita. NdT.

2Bollettino anarchico per la guerra sociale : https://avisdetempetes.noblogs.org/post/2022/12/15/avis-de-tempetes-59-60

3Intitolato “Perché ho bruciato le due antenne del Mont Poupet”, quel testo rivendicativo scritto in giugno è stato publicato in vari siti.

4Autori francesi di fantascienza e di fumetti che ricevono un certo successo in ambito alternativo.

5En temps d’écocide, rivista Takakia#1, 2024

26/07. Musica, inchiostri, voci contro ogni carcere… e la società che ne ha bisogno

Segnaliamo questa importante iniziativa che si terrà ad Alavo- Laboratorio per l’autogestione, a Polizzi Generosa.

Ecco il testo di lancio

“Ha senso oggi, con un piede dentro la terza guerra mondiale, una iniziativa specifica contro il carcere? C’è ancora tempo per tenere insieme l’attenzione alle condizioni di chi è rinchiuso/a con il pensiero agli occhi affamati dei bambini di Gaza?

Pensiamo di sì, vogliamo credere così, per diverse e importanti ragioni. Perché lo sciopero della fame di Alfredo Cospito, Paolo Todde e di molte/i altre/i, sono gesti individuali che richiamano la resistenza di un intero popolo posto al 41 bis dallo stato sionista. Perché rompere l’aura di sacralità dell’Antimafia in Sicilia, parlando di DNAA, è un colpo al più potente apparato ideologico/morale e militare di spoliazione, controllo e repressione della “nostra” storia nazionale. Perché non disperdere la memoria delle lotte di oggi e di chi ci ha preceduto è parte della nostra liberazione. Perché rimpinguare le casse anti-repressione significa continuare a tessere solidarietà rivoluzionaria.”

Stampiamo e diffondiamo!

Di radici, di vento e del senso del volo

Riportiamo qui le tappe di un piccolo dibattito cominciato con la pubblicazione del nostro articolo “Radici al vento” (che si può trovare qui: https://sciroccomadonie.noblogs.org/post/2024/08/03/radici-al-vento/), per il numero 15, ultimo, della rivista anarchica “I giorni e le notti”.

Proponiamo i testi in ordine di pubblicazione, a parte il nostro primo segnalato nel link qui sopra. Il primo è di Peppe Aiello e si intitola….


…Andare, tornare: scomodo e inestirpabile è il luogo che ti conosce

Ma tu furastiero, tu forse nun saje

comm’ è attaccata ‘sta gente a’ campagna

e si tenesse ‘nu piezzo e turreno,

e cu’ chistu turreno putesse campa’,

statte tranquillo, restasse là,

restasse ‘n campagna, felice ‘e campa’.

Franco Del Prete – Napoli Centrale,

Viecchie, mugliere, muorte e criaturi, 1975

I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori.

Karl Marx – Friedrich Engels

Manifesto del partito comunista, 1848.

Qualche mese fa ho avuto il piacere di ricevere Radici al vento, un articolo poi pubblicato sul n. 15 della rivista I giorni e le notti, che affronta con una prospettiva originale e concreta – di quella concretezza che risulta dalle scelte di vita – argomenti essenziali e scomodi, che provano a uscire dalla ritualità dei finti confronti in ambito libertario e a mettere al centro della propria attenzione il dove stiamo andando e dove vorremmo andare. Uno scritto immerso nella consapevolezza che questi non sono i tempi della fretta, perché essenziale non significa urgente, e abbiamo bisogno di muoverci con passo cauto – non incerto – su tracce conosciute eppure cambiate nel tempo.

Chissà, magari a essere cambiate [1] siamo noi.

Andare, tornare: scomodo e inestirpabile è il luogo che ti conosce. Penso di poter dire che gli estensori dello scritto fanno parte di chi ritiene che, in un mondo dove non vi è centro, ogni luogo sia adatto a metter mano all’esistente, e al futuro.

Negli stessi giorni stavo rileggendo Di sconfitta in sconfitta, scritto in carcere da Vincenzo Guagliardo, ex-brigatista passato attraverso un meditato itinerario che l’ha portato dagli schemi lottarmatisti (era nel gruppo responsabile della più impopolare uccisione della storia della lotta armata, quella del sindacalista comunista Rossa) a un’intransigente nonviolenza anticarceraria laica. A parte il lato sottilmente comico che avevo dimenticato – come il 98% degli ex comunisti anche Guagliardo conserva una malcelata idiosincrasia verso gli anarchici, colpevoli di aver capito nell’ottocento che determinate metodologie portano necessariamente al dispotismo – mi stavo concentrando sulle intricate riflessioni riguardo il rito sociale basato sul capro espiatorio, e sulle posizioni eterodosse di alcuni esponenti del cristianesimo medioevale. In questo contesto l’autore cita la famosa frase di Ugo di San Vittore – perfetto è quello per cui l’intero mondo è un paese straniero [2] – che mi ha sempre lasciato perplesso. Probabilmente perché devo il mio corredo genetico (e culturale) a persone che hanno adottato in merito scelte diametralmente opposte – uno che poteva e voleva partire, ma poi restò, e una che ha optato per una vita da straniera assoluta – quel concetto di perfezione non mi ha mai convinto del tutto. Si può mettere assieme nostra patria è il mondo intero con l’amore per la propria terra? E Radici al vento è arrivato in contemporanea con l’ennesima riproposizione di questo interrogativo.

Le terrone emigravano, le terrone emigrano. Per motivi diversi, per sperare di migliorare la propria vita, per sfuggire alla miseria, per scappare da luoghi che si percepiscono privi di risorse. Nel momento in cui scrivo le strade di Bologna sono piene di ventenni dall’accento calabrese, siciliano, campano, pugliese, lucano, ragazzi che non sono scappati dalla miseria né dalla fame. Qualcuna vuole un posto dove può lavorare e studiare al tempo stesso, altri cercano il paese dei balocchi (alcol e sostanze, casualmente sesso, ormai pressoché in disuso), altre credono che, rispetto al paese, lì ci sia di più, occasioni, magari una carriera.

Giovani con due genitori nati a Bologna sono in via di estinzione, come un tempo a Torino e Milano. Le settentrionali sono trent’anni che hanno smesso di fare figli. Dopo le meridionali si passa agli stranieri. I terroni fanno l’università e poi riempiono le scuole dove insegnano a leggere, scrivere e a far di conto ai figli delle terrone (sempre meno), ai rumeni, cinesi, albanesi, nigeriani, bengalesi (sempre più).

Tutte vanno, vengono, scappano, si innamorano, si sposano, si lasciano, pensano di ritornare – la mamma si sta facendo vecchiarella – o sostengono fermamente che non torneranno mai più. A volte fanno figlie che sono straniere ai loro stessi genitori, forestieri a se stessi. Sradicate che non sanno quale è la loro casa, che albero sono, e non sapendolo si andranno a trapiantare in grigie e tristi città europee, lì dove non si capisce perché la gente ride.

Puoi provare a escogitare qualche modo di difendere l’identità di un luogo se nessun luogo è casa tua?

La risposta che sembrano dare le autrici è – soggettivamente – plausibile. Recarsi da zù Jachinu e dalla signora Nina che non aderiranno né all’anarchismo classico né a quello contemporaneo, ma capaci per disposizione umana di entrare in un gioco relazionale aperto e poco definito con le idee di libertà. Un azzardo ostico, ma, per SteConFra, quello sul quale investire, in una civiltà che va verso forme di autofagocitazione sempre nuove e sempre vecchie, ma di potenza inusitata. Le giacche blu massacravano gli indiani e li riempivano di alcol. Nel giugno del 2024 è arrivata una notizia da una tribù amazzonica: l’agente del complesso militare-industriale-politico americano Musk gli ha fatto arrivare internet e dopo nove mesi stanno tutti davanti allo smartphone, non fanno altro. Aspettano l’estinzione guardando siti porno.

Il solo fatto di rivendicare, come fanno le autrici di Radici al vento, un mondo che tutti stigmatizzano in quanto obsoleto, e rimarcare le fratture che invoca, crepe inarrestabili che partono dentro di noi e si moltiplicano e si espandono nel corpo sociale, mi incoraggia. Mi piace che gente più giovane di me provi in questo senso, che tenti di uscire dagli schemi rivendicativi, antagonisti, ideologici. Un modo saporito di riconquistarsi la vita e il mondo, di tentare. Ma se fosse tutto qui vi inviterei solo caldamente a leggere il testo.

E invece, qualcosa è in agguato.

Nouvelle cuisine à la sicilienne – ‘o purp’ cu’ ‘a nutella

Sulla banchisa, in riva al mare,

c’era una volta un’orsa bipolare;

sapendo che il polpo è cibo prelibato

volle migliorarlo: con il cioccolato.

Quando, alla fine degli anni ’90, mi trovavo per lavoro nella Polonia post-comunista che si dedicava alacremente, con una spiccata verve antisovietica, alla trasformazione delle proprie forme di governo, produttive e militari, contattai sporadicamente alcuni anarchici della capitale che mi raccontavano dei loro episodici incontri con il movimento italiano e a un certo punto mi nominarono Ya Basta. Chiesi loro come facevano a conciliare il loro evidentissimo anticomunismo con le nipotine del marxismo-leninismo in salsa negriana, e la risposta mi lasciò stupito: «Loro si definiscono anarchici». Io sapevo benissimo che tutto quel contesto in realtà odiava le anarchiche quasi al di sopra di qualunque altra cosa, ma la loro affermazione rispondeva alla perfezione alle tattiche proprie della politica mimetica della quale Ul’janov fu massimo rappresentante. È una storia che non avrà mai fine: libertarie in fase movimentista, disciplinari quando si conquista l’apparato intero, o un suo pezzo, o anche un pezzettino microscopico di quello.

Tutto si può dire del socialismo autoritario di variante marxista (ce ne sono altri, già la rivoluzione di Blanqui era segnatamente avanguardista e tutta rivolta alla conquista del potere) ma non che non sia stato un prodotto ideologico-pratico di enorme successo. Appagando le aspettative umane di grandi organizzazioni ben strutturate alle quali aderire e di previsioni deterministe che garantivano “rigore scientifico” e indicavano la strada della dittatura del proletariato come ineluttabile, le militanti marxiste riuscirono a convincere centinaia di milioni di persone che il destino dell’umanità si indirizzasse proprio lì, senza dubbi né incertezze di sorta. Uno degli effetti collaterali, di irrilevanza pressoché totale per la storia della nostra civiltà ma di un certo interesse per chi si occupa di movimenti libertari, è il fatto che ben presto quelli che erano stati i più feroci critici della teoria e delle pratiche marx-engelsiane, sedicenti eredi di Bakunin, cominciarono a parlare e scrivere seguendo gli schemi del materialismo storico. E man mano che folte popolazioni s’andavano a trovare sotto il governo di regimi socialisti, diretti di solito da partiti comunisti, si invidiavano quei trionfi e si pensava fosse necessario prendere ciò che c’era di buono in quell’apparato ideologico-organizzativo che si stava dimostrando così adatto alle esigenze delle masse in rivolta. «Non puoi prescindere dall’analisi marxista» – era la formula di rito, non solo per gli m-l, ma per quasi tutto il movimento che si pensava rivoluzionario. E qui la struttura economica, e lì la storia come storia del conflitto tra le classi, e la falsa coscienza, e la caduta prepuziale del saggio di profitto, e la sussunzione nell’alto dei cieli del sacro capitale. Ne nacque uno sgorbio, ovvero la convinzione che l’anarchismo fosse una specie di marxismo senza la dittatura del proletariato. Un marxismo un po’ più simpatico e riguardoso delle libertà dei popoli. Tanto passò questa bizzarra idea che a un certo punto una serie di marxisti ortodossi, capitanati da un docente padovano, si infilarono in quella soffice nicchietta di marxismo libertario per adeguarsi ai tempi che incalzavano, beninteso senza uscire dalla chiesa del profeta di Treviri. Quel raccapricciante ircocervo mai più defunse e ancora oggi, certo sovraffaticato dagli eventi, costretto a continui equilibrismi e salti mortali dall’utilizzo di un armamentario limpidamente autoritario come strumento per la liberazione umana, si aggira lugubre con l’acrimonia tipica del figlio di un dio minore, che non si rassegna al fatto che quell’oracolo visionario sia decaduto al rango di un qualsiasi filosofetto ottocentesco.

Si sentì uno sparo. Johnny fece una piroletta e stramortì per terra.

Inedito romanzo western di un anonimo del XX secolo

Qui siamo di fronte a un caso molto più complicato. Lo scritto di SteConFra non è il proposito di consegnare al signor Procuste il proprio anelito libertario, quanto un tentativo che mette assieme la poesia dell’esperienza del complesso incontro (re-incontro) con le proprie radici e le geometrie para-accademiche del materialismo storico. Certo le più raffinate pietanze vengono dall’unione di componenti che mai si sarebbero incontrati senza la smania onnivora delle sapiens: tutte sappiamo che un mondo senza sposalizio tra melanzane asiatiche e pomodori nuovomondisti sarebbe assai più triste di quanto già non sia, e mai si può escludere che il mescolare ingredienti disparati origini uno squisito piatto di Nouvelle cuisine à la sicilienne. Oppure, è come tentare di produrre una nuova leccornia mettendo insieme il polpo con la nutella, entrando così nel campo dell’altamente improbabile.

Si è capito, ci troviamo in questo secondo caso, e da uomo di mare nonché conclamato saccarofobo, assocerò ‘o purp’ con il rustico canto del radicamento libertario e la nutella con le pirolette del cowboy marxista che stramortisce al suolo.

‘O purpo è il radicamento e il ritorno. Le autrici hanno vissuto l’emigrazione non per necessità ma per scelta, per la forza e l’emozione dell’affinità con preziose compagne di strada, eppure a un certo punto si sono trovati a fare i conti con la poca aderenza che una sincera intenzione e accordi più o meno chiari avevano con il progetto e con le pulsioni vitali. Insomma, i patti e le idee discusse a tavolino non hanno mai fatto e non fanno né la libertà né tantomeno la felicità. C’è altro, e va scoperto, cercato, un percorso che dura una vita – se ci interessa – magari partendo da un posto, ritrovandolo, se è il caso.

È un buon materiale con il quale possiamo operare, e in fondo non è che ci sia molto altro. Poi, certo, se ci si vuole affidare alle grandi organizzazioni sognando la Cnt del ’36 oppure alla propaganda del fatto, chi sarei mai io per dire che una si sbaglia: a me paiono scelte inattuali ma ognuno resti della sua opinione. Per nulla inattuali sono invece le acrobazie alle quali ci si costringe per giustificare l’indifendibile fiducia, o fede, nei dogmi marxisti e nella possibilità di aggiornarli e attualizzarli – una muffa di basso profilo, ma onnipresente. Un tic insopprimibile che esalta con procedura automatica il bisogno di legittimazione da parte dell’accademia e degli intellettuali organici o inorganici che siano: se parlo marxistese, se omaggio gli opportuni assiomi, l’accademia e i suoi figli spuri mi terranno in considerazione, altrimenti i miei interventi saranno ritenuti favole naïf e nessuno mi riterrà un titolato analista sociale. Una tragedia.

Quindi posso sì introdurre alla lettrice zù Jachinu e la morte, la signora Nina e la magia, ma se non ci metto sopra la glassa germanica mi sentirò marginalizzato nel folklore. E quindi, a un certo punto arrivano le prime schermaglie, così tenui da parere inoffensive: arrivano “i proletari”. Quando dico che preferisco evitare questo termine, che tutti usammo, invero con grande moderazione, in decenni passati, so di suscitare il sordo risentimento dei militanti; soprattutto perché che la loro solita arma, cioè inveire – «È perché sei un piccolobborghese!» – con me non attacca, provenendo da una famiglia rigorosamente proletaria, di lavoratori e non di possidenti, dove il bene voluttuario era un concetto assai articolato a desiderarsi.

Quindi ve lo dico con cognizione di causa: ai proletari, come continuate a chiamarli, la parola non dice nulla. In genere non la conoscono, e se la conoscono gli fa schifo.

Signor Courbet, qual è l’origine del mondo?

Ognuno ha la sua idea, Gustave Courbet aveva la sua, forse un po’ perentoria, ma apprezzabile. Ai taoisti piace l’Uovo cosmico, ai mediorientali lo sapete già. A me piace Mbombo, il gigante bianco che vomitò il sole e tutto il resto, quindi aderirei al partito dei Kuba, se aderissi a partiti. Per i marxisti, incluse le nostre amiche anarco-marxiste, l’origine sta nel fascinoso e tremendissimo motore universale: il Capitale. Questa scelta, se di scelta si tratta quando parliamo di fede, pone un problema spinoso. Che non è affatto la constatazione di come si tratti di un’entità con lati spietati e quasi malvagi. Con questo aspetto la religiosità monoteista ha esperienza millenaria e il todopoderoso veterotestamentario, contrariamente a quel mollaccione papà del capellone, appena facevi una mossa sbagliata ti inceneriva; oppure, se sbagliavi devozione, mandava qualcuno a colarti oro fuso in gola. Roba così. Il Capitale è praticamente uguale, forza creatrice e distruttrice, spietata e ineffabile. Ma non è agevole porre al vertice della cosmogonia un’entità così recente, praticamente neonata.

Ricordo l’esperienza straniante di quando, in gioventù, cercavo di discutere con i marxisti del concetto di Stato. Provavo ad articolare (con la modesta documentazione di cui disponevo al tempo, una specie di ricostruzione a tentoni) osservazioni su natura umana e strutture gerarchiche e dall’altra parte mi rimbalzava invariabilmente una pappagallata che cominciava con: «Perché la nascita dello Stato-nazione…». E io a dire ogni volta che volevo parlare di transizione dalle società egualitarie a forme statali, passaggio che veniva assai prima del cosiddetto Stato-nazione, e che quello di cui avrei voluto disputare era la possibilità che le sapiens facessero a meno di comando e istituzioni, non di Stato-nazione. Mi ci volle del tempo per capire che tutte loro non stavano argomentando, bensì ripetendo una formula liturgica senza la quale si sarebbero ritrovati senza punti di riferimento.

Può sembrare bislacco, ma gli anarchici non ne erano affatto esenti, ritengo a causa dello storico complesso del perdente, che i marxisti non avevano, viste le tante rivoluzioni “vinte”. Gli anarchici invece quella volta che la facevano subito la “perdevano”. Invece di indurre una meditazione sui concetti di vittoria e sconfitta, ciò inoltrava verso il solito dilemma arcinovista, che alla fine ti convince che il comunismo funziona meglio (che poi ad Aršinov non portò tanto bene: se fosse rimasto anarchico e, soprattutto, fuori portata della Čeka, certo campava qualche altro anno). Quindi, per tornare alle nostre scrittrici, mentre stanno parlando di ritorno e sradicamento, prima buttano lì, con discrezione, un “proletari”, innocuo. Certo, io le vorrei vedere le nostre amiche mentre si rivolgono così ai lavoratori autoctoni o migranti approdati sulle coste sicule («Proletario! – Su, scendi dal barcone e dai inizio alla lotta di classe, tuo compito storico!») – spero che facciano un filmato quando si decideranno, perché voglio tanto vederlo.

Ancora due righe e l’attacco si fa esplicito, il primo colpo di mortaio: improvvisamente al centro della scena spunta il passaggio da una cosmovisione nativa a una capitalista. Quindi non ci interessa la visione degli erectus (giusto, altra gente, chissà cosa mai pensavano), né dei neanderthaliani, con i quali le cose già si fanno più ramificate, ma neppure dei Cro-Magnon, che erano praticamente uguali a noi. Soprattutto non consideriamo il passaggio che molte antropologhe ritengono cruciale tra sistema di vita paleolitico e quello neolitico. Quando parlano di cosmovisione nativa, di cosa parlano i nostri autori? Di quella dei !Kung, di quella degli aztechi, dei greci o dei tizi di Ust’-Ishim che 45000 anni fa avevano il fegato di vivere senza riscaldamento in Siberia? Questa gente aveva la stessa cosmovisione degli africani? Uguale a quella delle mie bisnonne contadine? O forse stiamo appiattendo cose diversissime tra loro? Pare di sì, ma è chiaro che se non lo facciamo quella presunta entità suprema perde tutta la sua rilevanza. Potrebbe darsi che dall’arrivo delle sapiens siano comparse e scomparse migliaia di cosmovisioni diverse, tutte a modo loro “native” e tutte a loro modo sterminatrici di quelle delle popolazioni che le avevano precedute.

Sono già in seria difficoltà, ma inaspettato, altre due righe sotto, arriva l’uppercut finale, quello che mi mette al tappeto.

Il regime economico capitalista esiste da cinque secoli: niente, se proiettati sull’arco lunghissimo della storia dell’umanità sul pianeta. Prima dell’estrattivismo, le popolazioni umane vivevano del, e nel, rapporto ecologico con il loro ambiente…

Nel leggere, prima di svenire, resto a bocca aperta. Il regime economico capitalista…? Ora sì che si potrà parlare con competenza della signora Nina e dei suoi santi e delle foto sul comodino, senza che a nessuno venga il dubbio che gli autori ignorino il Sacro verbo. Il piccolo difetto della liturgia è che induce a un’affermazione che non è solo ideologia pura, è proprio un falso storico. L’idea che la rapina sistematizzata ai danni di altre popolazioni da parte di società ben strutturate secondo un’aggressiva organizzazione politico-militare gerarchica sia venuta fuori con il capitalismo è come asserire che la razza dei topi è nata con Mickey Mouse. Eppure siamo a un passo da Siracusa che contò, dicono, fino a un milione di abitanti. E come avrebbe potuto vivere, cosa mai avrebbe potuto mangiare, di cosa vestirsi, per tacere di ozî e lussi, tutta questa gente senza depredare altra gente? E il capitalismo – ammesso che questo golem davvero esista – cosa avrebbe a che fare con tutto ciò? Ur, Anurādhapura o l’efferata Caput mundi, le metropoli dell’antichità, millenni prima dell’industrializzazione (quella sì che esiste) si muovevano, presumiamo, secondo lo stesso principio: ammassarsi per razziare, razziare per poter vivere ammassati. La parola estrattivismo d’incanto si svuota e il capitalismo estrattivista diviene sinonimo delle convergenze parallele o del ciuccio che vola, se preferite.

Uno che qualcosa ne sapeva, visto che nei mondi non-industrializzati ci passò tutta la vita, raccontava qualcosa che invece di quelle fatuità tipo accumulazione originaria, spiega in quale modo la struttura avesse intrinsecamente necessità di prendere (rubare? prelevare?), conservare, distribuire:

Or sappiate ancora per verità che ’l Grande Sire manda messaggi per tutte sue province per sapere di suoi uomini, s’egli ànno danno di loro biade, o per difalta di tempo o di grilli, o per altra pistolenza. E s’egli truova che alcuna sua gente abbia questo danaggio, egli no gli fa tòrre trebuto ch’egli debbono dare, ma falli donare di sua biada, acciò ch’abbiano che seminare e che mangiare. E questo è grande fatto d’un signore a farlo. [3]

e oltre

Or vi conterò come ’l Grande Signore fa carità a li poveri che stanno in Canbalu. A tutte le famiglie povere de la città, che sono in famiglia 6 o 8, o piú o meno, che no ànno che mangiare, egli li fa dare grano e altra biada; e questo fa fare a grandissima quantità di famiglie. Ancor non è vietato lo pane del Signore a niuno che voglia andare per esso; e sappiate che ve ne va ogne die piú di 30.000; e questo fa fare tutto l’anno. E questo è grande bontà di signori, e per questo è adorato come idio dal popolo.

Accumulare per mantenere e consolidare la struttura sociale, alti tassi di densità demografica resi possibili dalla gestione militare delle risorse. Ma, visto che siamo in epoca pre-capitalista secondo le autrici ci doveva essere, sotto il governo del Kublai Khan, un rapporto ecologico con l’ambiente, ed evidentemente nessuno sradicamento. Certo sarebbe stato interessante conoscere il parere delle 20.000 femmine che fallano per danari che popolavano i quartieri periferici di Khanbaliq (approssimativamente: Pechino). Magari erano adolescenti di famiglia contadina costrette/indotte a prostituirsi nella metropoli? Questo il nostro veneziano – narratore sintetico – non lo racconta così esplicitamente, ma se si ha voglia di leggere come veniva formato il suo harem (questo lo scrive) forse qualche idea ce la si può fare.

Esodo dalla modernità?

La proposta dei nostri autori è esplicita, cominciare a edificare, senza disgiungere teoria e pratica, dei tentativi di tirarsi fuori dalla rassegnazione, dal mito dell’inevitabilità della tecnologia a sviluppo infinito destinata a regolare automaticamente, al di sopra e indipendentemente dalle forme sociali, le necessità, i limiti e i conflitti umani. Lo chiamano esodo dalla modernità, che non è evidentemente primitivismo, né intende il patetico progetto di riavvolgere il filo dipanato della storia. Peccato si siano messi come zavorra i triti concetti (che non sono solo vocabolario) dell’ideologia più aggressivamente progressista che il XIX secolo abbia partorito e debbano infarcire la perspicace poesia del mondo in cui hanno deciso di immergersi e al tempo stesso di creare, di detriti quali il regime economico del plusvalore o le frontiere del capitale in espansione che le rivela ancora in seria difficoltà a liberarsi della quarta religione monoteista di cui il Medio oriente graziosamente ci fece omaggio dopo ebraismo, cristianesimo e islamismo. Certo, a chi ritiene che le parole possano essere usate in maniera elastica (che è vero, sempre, ma non sempre è un bene) e che non ci si dovrebbe troppo accanire sulle forme di un discorso, bensì sugli intenti, sulle radici e sulle foglie, questo sproloquio sarà parso inutile e noioso. Ma l’argomentare, l’immaginarsi il mondo, o prevederlo, o paventarlo, o auspicarlo attraverso l’accostarsi di vocaboli, non può essere qualcosa di separato, di estraneo al nostro quotidiano. E anche se non credo che sia necessario prima fare chiarezza e poi cambiare il mondo, penso anche che, visto che il cammino da fare è assai lungo, sarà meglio farlo con le zampette libere e senza le pastoie di un passato che ha già sufficientemente dimostrato dove portassero le sue strade.

Giuseppe Aiello, agosto 2024

[1] Femminile e maschile vengono qui usati seguendo un rigoroso protocollo AMC (ad mentula canis).

[2] Delicatus ille est adhuc cui patria dulcis est; fortis autem iam, cui omne solum patria est; perfectus vero, cui mundus totus exsilium est; ovvero: L’uomo che considera dolce la propria patria [ma Guagliardo qui traduce invece: luogo nataleè ancora un tenero principiante; colui per il quale ogni territorio è come il proprio suolo natio è già più forte; ma perfetto è colui per il quale l’intero mondo è come una terra straniera. Ugo di San Vittore, 1128 ca., Didascalicon, III, 19.

[3] Marco Polo e Rustichello da Pisa, Il Milione, 1298 ca

La risposta non poteva mancare, certi inviti al ballo non si rifiutano

A mezzo il cielo

Ci sono amicizie che nascono sulla terraferma e altre che si annodano nella complicità irripetibile del naufragio, e di quella cosa di schiuma e di flutti hanno ancora il sale; nelle vele di alcune soffia il vento che porta ad approdi sicuri (non è detto che siano i migliori), in altre quello per continuare la navigazione fino a quando gli arrivi abbiano magari il tocco rude della verità (categoria un po’ scomoda di questi tempi), piuttosto che quello appiccicoso e dolciastro della consolazione. Con Peppe ci siamo conosciutinel “diluvio universale covid”, con la sola bussola dei principî confermati e accordati al corpo teso alla vita. Le amicizie così, legami che nascono fuoritempo, non si misurano in anni e anche la scoperta delle affinità e disaffinità si fonda su un movimento particolare, in cui stima e sfida non si escludono nel gioco delle reciproche intelligenze.

Il primo incontro è avvenuto su terra apparentemente ferma, addirittura tra le nostre montagne, in occasione della due-giorni su Sud, civiltà contadina, apocalisse culturale e cosmovisioni, rivoluzione. Quell’incontro nasceva dalla necessità improcrastinabile, cioè storicamente urgente, di fare un bilancio del biennio covid e, insieme, nominare dei varchi possibili per il futuro che, giustamente, immaginavamo altrettanto totalitario e guerresco. Dopo il naufragio imposto, ci prefiggevamo una deriva controllata: andare per mari inesplorati con alcuni punti fermi: la tensione anarchica e la sua storia, ad esempio.

A partire dalle esperienze che ci hanno visti individualmente e collettivamente malconci, cosa salvare e cosa lasciare affondare del nostro strumentario teorico/pratico? E, in quanto diversi dentro un sociale che diventa macchina di annientamento delle diversità, quali i nodi da lavorare, da sciogliere, da tagliare? Quali le piste da percorrere, quali le risorse a cui attingere? Se abbiamo voluto Peppe in quella due giorni con noi è stato per porci insieme la domanda se a Sud si trovino ancora dei segni di qualcosa di diverso, uno scarto, rispetto all’apocalisse totale e marciante che si fa vanto di chiamarsi Occidente. Qualcosa di particolare sì, la civiltà contadina e le sue memorie non disperse per esempio, ma che riportato alla luce può avere un effetto liberatorio (potenzialmente) per tutti/e. Non un altrove e neanche un patrimonio ripristinabile a volontà, ma uno strumento di scavo della storia collettiva per capire da dove veniamo, come siamo stati educati a vedere come siamo. Eppure per scavare – o dissodare, o dinamitare – ci si dà da fare con i materiali a disposizione; poiché questa ricerca si muove su terreni teorici, gli strumenti teorici sono quelli su cui interrogarsi, che è giusto mettere in discussione. Siamo d’accordo: nessuna tecnica è neutra, così come non lo sono gli strumenti, nessuna eredità che non sia scelta (almeno in questo campo). È proprio su questo punto che si colloca la critica di Peppe: visto che certi mezzi possono fagocitare gli obiettivi per cui si utilizzano, bisogna fare attenzione ai primi come ai secondi.

Quesiti enormi, che richiedono ben più di due giorni intensi, che continuano a presentarsi e a incalzarci al ritmo delle tragedie e della nostra inadeguatezza di fronte ad esse. Proprio per questo, che Peppe ci rintuzzi su queste cose, ci fa piacere; che si coltivi uno scambio che, tra gli odori di fine del mondo, ci inviti a non volare alla “bassezza dei tempi” non ci sembra sia una pratica scollegata rispetto agli altri doveri della vita e della lotta.

Accogliamo quindi, e pure con un inchino, la critica all’uso accademico di Marx, al trascorrere dei concetti in parole d’ordine e al loro impastoiarsi nel blablabla che nelle università bisogna biascicare per inserirsi in questa o quella cordata, e farci carriera; e poi, una volta accreditati come bravi “marxisti” (o, quanto a ciò, come bravi “foucaultiani”, “postcoloniali”, “transfemministi” ecc.), starsene comodi col culo sullo scranno e senza trovar niente da ridire quando il governo mette tutta la popolazione ai domiciliari.

Vorremmo poi rassicurare Peppe: nessuno di noi accende candeline sotto l’immagine di san Karl. Ma stiamo divagando, il punto è questo: c’è ancora un’utilità nei concetti marxiani? Le categorie di “proletario”, “feticismo”, “accumulazione primitiva” hanno ancora un’utilità o sono irrimediabilmente ferrivecchi?

Questa prima domanda s’intreccia a una seconda questione, più ampia e cruciale: nella galleria degli orrori che è la storia dell’umanità per come noi la conosciamo, il capitalismo ha una sua originalità, porta un aggravamento specifico, oppure è solo una delle molte forme possibili di dominio? Che, per l’appunto, è la questione che Peppe pone nel suo scritto e che, di fatto, tutto l’anarchismo pone non solo ai marxisti (poverelli…) ma a chiunque trovi che lo stato del mondo è insopportabile.

Non siamo affatto sicuri della risposta; sempre ammesso che una risposta ci sia e che non sia questione, soprattutto, di sensibilità. Qui proviamo ad argomentare a partire da un sospetto, dall’impressione persistente che, nell’infinita sequenza di modi sempre nuovi per opprimere gli umani, gli ultimi secoli abbiano una loro tragica specificità. Non parliamo solo del capitalismo in quanto sistema economico, ma più in generale della modernità, ovvero del mondo umano che ha preso forma nel convergere di colonialismo, capitalismo, formazione degli stati-nazione, industrialismo, sequestro accademico-statale della conoscenza e della cura. Insomma, la merda in cui nuotiamo. Non che l’impero romano, quello cinese o quello azteco ci facciano simpatia; così come non ce ne fanno le forme antiche e, per così dire, “pre-statali” di sfruttamento dell’uno sull’altro. Detto ciò, però, tocca fare i conti col fatto che il susseguirsi, senza quasi por tempo in mezzo, di colonialismo, totalitarismo, sradicamento di ogni forma di vita altra, tratta atlantica, genocidi, campi di sterminio, controllo integrale delle popolazioni, disastro ambientale e attacco sistematico al vivente (v. la storia del nucleare), uniti a forme straordinariamente efficaci di indottrinamento e cecità indotta, è un fenomeno tutto moderno. O se non altro, è moderna la dimensione industriale della distruzione; ma sospettiamo che, a monte, ci sia un baco specifico: l’idea tutta moderna di essere il solo sistema di vita possibile e degno, la squalificazione di principio, e quindi la distruzione, di ogni forma altra di organizzazione. Mentre altre forme di dominio, forse per mancanza di mezzi tecnici adeguati, lasciavano spazi liberi, la modernità coincide con l’esproprio, il sequestro e la messa a servizio di tutto: dell’ontologia con la partizione natura/cultura (e tutte le altre ontologie possibili sono solo storielle), della verità con la scienza (e ogni altra forma di conoscenza è superstizione), delle forme affettive con la distruzione delle regolazioni locali, del bene con il suo appiattimento nel progresso, della socialità con l’urbanistica di controllo, gli schermi, gli intruppamenti per classe d’età, delle forme affettive con la famiglia mononucleare e così via, all’infinito.

Lo stesso infinito che il capitalismo assume come punto di fuga del plusvalore. Nel disastro globale che la modernità riversa sul mondo, la piega economicista – e quindi la rilevanza teorica del capitalismo – è un pezzo fondamentale perché si salda, molto presto, con il mito fondante della modernità: quello del progresso. Per questo ci pare che lo strumentario marxiano resti utile per analizzare uno snodo fondamentale del tempo in cui viviamo. (Poi, certo, nessuno che occupi la posizione di sfruttato vuole sentirsi chiamare “proletario”, ma a quel che ci consta neanche chi occupa la posizione di sfruttatore vuole sentirsi chiamare “borghese”). Così come ci sembra utile la descrizione marxiana dell’accumulazione primitiva come esproprio dei commons, che si può estendere da momento iniziale a condizione di possibilità del plusvalore; e quella del feticismo della merce come vera e propria cattura stregonesca dell’anima delle vittime, lungamente esplorata dalla critica radicale anni Settanta. Semmai, ma questo è stata più opera degli scolastici della religione marxista che di Marx stesso, la visione escatologica del processo storico (una dinamica rigidamente di fase: comunismo primitivo  antichità schiavistica  feudalesimo  capitalismo  socialismo  comunismo) ha creato diversi mostriciattoli giustamente citati da Peppe, ad esempio l’industrialismo e, come sottolineato dall’erratico Benjamin, la fiducia degli sfruttati nella corrente della Storia. E avremmo molto da ridire sul tatticismo etico, sulla prima Internazionale, sulla tecnolatria e su alcune ambiguità come il general intellect e l’atteggiamento verso lo Stato. In generale, quindi, l’uso che ci capita di fare dell’opera di Marx è lo stesso che ne fece Cafiero (o che ne fecero Benjamin, Anders, Cesarano, Coppo, Vaneigem, Camatte e altre decine di pensatori critici più o meno radicali): quella di un pensiero da discernere. E questo può significare, di volta in volta, litigarci, romperlo, prenderne un pezzo, stipulare un armistizio. La stessa cosa faremmo/facciamo col pensiero di Stirner, Bakunin, Malatesta, Goldman, Bonanno ecc. Un uso insomma non religioso: proprio perché la religiosità non è una caratteristica della cosa venerata ma del rapporto che si instaura con essa. E sì, è ironico, che proprio il pensiero di chi ha criticato il feticismo sia stato feticizzato, ma la cosa non ci riguarda personalmente (dice invece qualcosa dell’ambivalenza dell’umano coi simboli che produce). Invece, sulla specificità dello sguardo anarchico rispetto a quello marxista, pensiamo di convenire con Peppe, sta nella precedenza del momento militare rispetto a quello economico: prima l’esercito espropriatore delle autonomie, poi la fabbrica espropriatrice di vita. Eppure, sia lo sguardo anarchico che quello marxista classicamente intesi hanno bisogno di altri strumenti per sondare il lato cultuale dell’ordine costituito, il sequestro e l’organizzazione dei desideri, la colonizzazione della corporeità e dell’immaginario.

Una nota sentimentale. La posizione di Peppe porta un timbro un poco malinconico, che si potrebbe tradurre pressappoco così: “il dominio c’è sempre stato, anche fra i cacciatori-raccoglitori, e ha sempre fatto schifo; inutile perder tempo con quello capitalista, che è solo l’ultimo rampollo”. Ora, qui davvero parliamo di strutture di sentimento, quelle che muovono nel più profondo e sulle quali forse c’è poco da discutere. Ma è possibile che questa visione sconsolata sia, anch’essa, effetto di stregoneria; che, cioè, sia indotta dallo studio della storia scritta dai vincitori, quella secondo cui bisogna per forza scegliere fra libertà e ricchezza, fra autonomia e sicurezza, fra controllo e barbarie. Ma se non fosse così? Sulla base di un insieme cospicuo di dati archeologici, L’alba di tutto di Graeber e Wengrow delinea una preistoria molto diversa da quella descritta nei manuali scolastici: un tempo, innanzitutto, di sperimentazioni sociali; dove l’organizzazione complessa (“cittadina”) era compatibile con l’autonomia e l’autogestione; dove i modi di vita non si disponevano secondo una progressione univoca (cacciatori-raccoglitori, poi pastori e agricoltori, infine industriali), ma c’era un andare e venire fra forme di organizzazione; dove si poteva vivere di caccia e raccolta in estate, ma si stava tutti insieme in villaggio in inverno; e dove non si riscontra alcun determinismo socio-economico (la struttura sociale dei cacciatori-raccoglitori non è necessariamente egualitaria, quella degli agricoltori non è necessariamente gerarchica e così via). Se così fosse, allora anche la domanda terribile, antropologica, sull’origine del dominio prenderebbe un’altra inflessione: c’è dominio non perché gli umani sono intrinsecamente bacati, geneticamente propensi al peggio o cattivi per natura, ma perché alcuni gruppi decidono di agire il dominio, mentre altri fanno di tutto per evitare che si produca. Allo stesso modo – e come notano anche gli autori – se fosse così, la specificità del dominio moderno non risiederebbe tanto nella sua presa e nella sua estensione materiale, quanto nella sua capacità di annichilire l’immaginazione, di rendere impensabile il divenire politico collettivo.

Finiamo come abbiamo cominciato, con alcune considerazione alla (sulla) deriva.

Un’impressione s’insinua: che il porsi tutte queste domande sul linguaggio analitico, sulla definizione, sulle lenti per guardare fuorici inscriva, in qualche modo, ancora nella storia d’Occidente, della sua mania nominatrice come riflesso di una volontà ordinante che ci faccia sentire puri e puliti con una semplice operazione del pensiero.

Certo, che ci piaccia o no, siamo occidentali, almeno fino a quando non avremo realizzato, insieme ad altri barbari, il destino d’Occidente1… di tramontare.

Tutto il linguaggio dell’analisi del vecchio mondo fa parte del tramonto, le sue parole sono le pompe funebri che, traendo da vivere dalle cose morte, ne rimangono in qualche modo incaricate. Allora continueremo a usare questo linguaggio come qualcosa a cui non affezionarsi, perché è lì lì per cadere oltre le colonne d’Ercole del pensiero. Poi c’è il linguaggio delle cose vive, delle esperienze vere – quelle che rovesciano il tavolo delle passività e delle inimmaginabilità. Di fronte a questo linguaggio siamo come di fronte all’aurora. Se c’è infatti una differenza sensibile tra crepuscolo e aurora è questa: mentre durante il primo le cose si fanno definite, scolpite dalla vividezza della loro ombra, durante la seconda è tutto ancora molto indefinito, crogiolo di vita in potenza, tremore promettente.

Di fronte all’aurora siamo tutti infanti, di fronte al crepuscolo ci sentiamo saggi perché pensiamo di sapere tutto della giornata trascorsa. La capacità che ci è richiesta è allora non quella di creare da subito un linguaggio delle cose nuove (momento ingovernabile che spetta al gioco degli umani con le loro sorgenti), ma di allenare gli occhi a distinguere albe e crepuscoli.

Tutta la conoscenza acquisita prima di toccare quel punto – a mezzo il cielo – sembra rivolgersi allora verso l’infanzia, la casa, la prima terra, verso il mistero delle radici, che di giorno in giorno acquista eloquenza. Verso un dialogo sempre più stretto tra l’antico bambino e i morti – i ministri velati, onnipresenti della memoria. Capii bene come ascoltando i suoi nonni paterni – sbanditi e deposti dai conquistatori – il meticcio Garcilaso sapesse, una volta per tutte, che di se stesso avrebbe detto soltanto El Inca, sebbene fosse cristiano, cattolico ardente e figlio di un illustre Spagnolo. Comprese improvvisamente quei lamenti mille volte ascoltati, quei vecchi disperatamente nostalgici dei loro morti imperatori, terribili e soavi come il sole. Può non essere meno drammatico l’incontro con un ritratto di famiglia, l’uomo o la donna di cui mille volte udimmo parlare, il nonno che ha il nostro volto ma che – soltanto oggi è chiaro – ha vedutogli imperatori: porta nelle pupille fredde e tenere quello che noi cerchiamo dalla nascita, dentro e fuori. Qualcosa di molto simile alla terra, che (come un Indio si espresse) ci fu tolta sotto colore di aprirci il cielo.

(Cristina Campo, In medio coeli)

ConFra

1Ci riferiamo qui all’Occidente come concetto che si staglia sul panorama storico umano dopo avere eliminato le proprie specificità interne, e gli ostacoli ad un progetto di civilizzazione totalitario, non a tutte le spinte che qui hanno tentato di resistere a quel progetto.

Perdenti per sempre? Perfetti per oggi!

Quando si parla di spazio si tralascia spesso di dire della sua sorella nascosta, il tempo o, meglio, dell’esperienza del tempo che in uno spazio si fa. Uno spazio in cui si sta bene è quello in cui l’esperienza del tempo – io con gli altri, io con una versione più carica di me stessa/o – assume una intensità che crea una differenza: tra il “qui” e il “fuori”, tra l”appena trascorso” e la “routine”. Sono i momenti in cui non ci si cura del “per sempre” e di altri ingombri, e si dilata la presenza, le presenze.

L’appena trascorso di alavò, e di chi ha deciso il coraggio di attraversarne la soglia, è una due giorni sulla terra, sul nostro rapporto prezioso e precario con questa madre comune. La prima occasione è stata un pomeriggio di meraviglia con Michele Piccione, la sua generosità, il suo genio e, ultima non ultima, la sua umiltà (una dote rara tra artisti, unica per quelli del suo calibro): il viaggio del mondo in 100 minuti tra strumenti che la storia delle umanità ha prodotto, in particolare quella di popoli storicamente oppressi, ci ha ricordato una bella frase di Jean Giono su una qualità degli umani: di saper uguagliare, talvolta, la potenza del divino non solo nella capacità di distruzione.

Il secondo giorno, sabato 22, è stato dedicato ad una pratica vecchia quanto il mondo dell’agricoltura: uno scambio di semi antichi (di orticole, di fiori, di officinali) tra persone che non hanno voglia di lasciare la terra, che coltivano nel rapporto con essa una volontà di autonomia e libertà che come sempre cozza con gli interessi di chi vuole il predominio su tutto il vivente. Si è parlato dei nuovi ogm, della necessità e difficoltà di contrastarli e contrastare la visione che ne è alla base; dei legami finanziari e di ricerca scientifica tra queste tecniche e i signori della guerra; del farsi totalitario dello sfruttamento. Se la terra è la madre, matrigna è il comparto scientifico-industriale- militare che, propagandando l’agricoltura 4.0, inquina i cervelli ancora prima che i corpi e i territori: ecoterrorista non è chi devasta la biosfera con i suoi ogm e i ponti sullo stretto, con il nucleare e le sue guerre al fosforo, è chi resiste e agisce in prima persona contro questa devastazione.

In un mondo così “bombardato”, chiunque dissente (sente in maniera diversa) è pazzo o criminale o entrambe le cose: scoria da rinchiudere, da neutralizzare, con galera od ospedale, col manganello o con gli psicofarmaci. Ma un simile ribaltamento si può propagare solo in un sociale trasformato in un formicaio di uomini soli. Per questo il valore della solidarietà, dell’autorganizzazione: per pensare bene occore respirare insieme.

Allora, è per continuare a tessere il mosaico delle rotte che contano che incontreremo il 30 marzo Stefania Consigliere e il 18 aprile Charlie Barnao; con la prima parleremo del malessere e di possibili piste per uscirne, col secondo dell’ostacolo principale a vederne le cause sociali: il carcere, una discarica sociale utile alla guerra totale.

Radici al vento

E’ uscito, per il numero di chiusura della rivista anarchica “I giorni e le notti”, un contributo di alcun* curatori di questo blog. Riportiamo l’introduzione qui sotto e la versione completa dell’articolo nel link in basso.

In Sicilia, potrete trovare la rivista (a breve? Dipende dalle poste…), presso: Alavò- Laboratorio per l’Autogestione, a Polizzi Generosa (alavo.noblogs.org ); il circolo Carrettieri, in via Carrettieri 14, Palermo;  a Messina presso la distro di Stretto Libertaria (http://nopassaran.noblogs.org).   Oppure, se ne voleste chiedere più copie, scrivete all’indirizzo:  navedeifolli@gmail.com

 

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Radici al vento

Il giorno

L’albero non ha più le foglie”

zù Jachinu Spagnuolo, contadino e uomo-albero

Con queste parole, dette nel siciliano di Polizzi a sua moglie e compagna di una vita, il nostro amico Gioacchino ha presagito e annunciato la propria morte. Le ha pronunciate il mattino del’8 gennaio e se n’è andato, con un infarto, la notte immediatamente successiva. Gioacchino non era un compagno nel senso che diamo, in ambiente anarchico, a questo termine, ma molte volte abbiamo mangiato con lui e più spesso abbiamo condiviso il pane della parola sul mondo e sulla vita. Se n’è andato a 84 anni quasi compiuti – li avrebbe compiuti il 14 febbraio e molto dice la data di nascita di quest’uomo così capace di amare, che lascia dietro di sé la scia dolce della sua presenza, di una saggezza coltivata a giardino, a orto, a noccioleto; a noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, rimarrà a lungo nella memoria il suo sguardo abitato dall’esperienza con gli altri: con le persone, in un’arcata di tempo che ha visto il suo mondo – la civiltà agricola di montagna, con ampi margini di autonomia materiale e immateriale – prima cambiare e poi scomparire; con le piante e con gli animali che tanto gli hanno dato, in quanto lui (si) era disposto a (ap)prendere.

Gioacchino era un uomo radicato e felice come pochi ne abbiamo conosciuti. Per questo non ci è sembrato abusivo tratteggiare qui alcuni lineamenti del suo essere.

La sua frase di congedo dice qualcosa sul radicamento anche agli sconosciuti, qualcosa da apprendere visto che, generalmente, ci manca. L’essere radicati è, tra le altre cose, un’esperienza del corpo, un appartenersi integrale che l’intelligenza del nostro amico riporta non a caso con l’immagine dell’albero spoglio; questo dialogo organico è così forte che non si interrompe neanche con lo spegnersi dell’armonia entropica che ci tiene in vita: esso cambia semmai di segno, dando agnizione della morte imminente.

Ci sembra che, tra le tante cose che il Sistema mette in conto di distruggere per perpetuarsi, ci sia anche questa esperienza, questo appartenersi integralmente che, finché dura, potrebbe mandare in pensione Descartes, il mondo scisso da lui architettato e tutti i suoi eredi contemporanei, i molti e variegati “gestori della vita”.

Sentirsi un albero spoglio, sentire l’inverno della vita, e non abbattersi: questa postura di dignità di fronte all’avvicinarsi della morte ci sembra inoltre una vera e propria diserzione del paradigma della sopravvivenza tele-aumentata-senza-fine promossa dall’utopia transumanista.

Continua qui: radicialvento

 

 

Epifania d’Occidente ovvero le due facce dell’orrore

Ecco le due notizie del giorno dall’enorme campo di sterminio in cui Israele sta trasformando Gaza.
La prima attiene al terreno della prassi genocidaria, la seconda alla dimensione linguistica,  cioè delle politiche linguistiche che è giusto tenere di fronte all’annientamento di un’intera popolazione. Protagonisti della prima sono i fascisti israeliani, mentre i protagonisti della seconda sono personalità di sinistra – o, come si usa dire, della “società civile”. Essendo i primi, come sempre, degli estatici della morte, nemici eccitati degli oppressi e dell’umanità e della vita, tralasceremo di occuparcene: con gli assassini, degli assassini, non si discute. Dei secondi e dei loro discorsi, anche qui come sempre, occorre occuparsene, perché il loro mestiere di produrre finta critica e gettare “fumo negli occhi” è tanto proficuo per il sistema quanto dannoso per l’umanità oppressa. Intanto un fatto: uno dei firmatari, forse il più eminente, è un informatico che ha sviluppato algoritmi e lavorato per la stessa intelligenza artificiale che è protagonista della guerra in corso.
È chiaro anche in questo caso come i personaggi di sinistra, in una società in cui la guerra è un fatto totale, sono assassini dal volto pulito per il semplice fatto di volere continuare a “sedere in società” rimuovendone il suo fatto fondamentale: la guerra appunto. Con un valore aggiunto, per il Sistema, che è la finta critica: se nella vita di tutti i giorni lavoro all’infrastruttura tecnica che aumenta la capacità distruttiva della guerra e, dopo tre mesi di massacri, firmo un appello “contro lo sdoganamento linguistico del genocidio”, faccio guerra all’intelligenza naturale (alla coscienza) di tutti e di ognuno. Eppure, anche se siamo di fronte a un enorme capacità di falsa coscienza dei soggetti in questione, c’è una parvenza di coerenza nel progetto: se la guerra è sempre più un affare di macchine intelligenti e di uomini macchina (cioè svuotati della loro intelligenza di specie) allora l’eccitamento fascista alla morte, l’incitamento allo sterminio, i discorsi esaltanti la pulizia etnica, sono vezzi obsoleti, da cavernicoli (1). Questa è la versione attuale del programma di sinistra del capitale occidentale: facciamo fare il lavoro sporco alle macchine, così potremo stare al lavoro nei bianchi dipartimenti in cui si progetta la fine dell’umano. (Non c’è miglior commento alla parabola di vita di Toni Negri di questo “manifesto della ragion tecnica applicata” che è la democrazia Israeliana)
Quello che i sinistri non potranno mai vedere – immersi come sono nella contraddizione che li costituisce – è che non c’è futuro per la ricerca della tecnoscienza fuori dall’impulso di morte alimentato dagli Stati e dagli eserciti; che, “raffreddato” e codificato in codici binari, è quello stesso spirito di morte che le macchine incorporano e sempre più incorporeranno grazie al lavoro di solerti ricercatori così inclini all’autoindulgenza etica.

L’unica coscienza vera e, con essa, l’unica possibilità di futuro è nella rivoluzione vista come opera di quegli umani che tirano il freno di emergenza del treno – in corsa verso l’abisso – che gli umani stessi hanno costruito (altri umani o il me stesso di qualche anno fa, poco importa). Ma nel frattempo, per restare umani, bloccare la normalità dello sterminio (dai carichi di materiale bellico alla percezione del “non ci riguarda”) sarebbe il minimo indispensabile.

1) Viene in mente Gunther Anders che col suo acume notava come l’esaltazione della violenza e della morte tipica dei fascisti fosse un esempio di “mimesi delle macchine”, un tentativo di imitarne la capacità distruttiva, di colmare sul campo della violenza il dislivello prometeico tra il mondo umano e quello tecnico.

 

Il paesaggio e la vita

 


Anche quest’anno a Polizzi Generosa si t
iene, dal 8 al 17 dicembre, il festival del paesaggio1. Si tratta di una kermesse di incontri e proiezioni già criticabile in sé, separata com’è dalla quotidianità degli abitanti disastrati (non fotogenica categoria di cui ci fregiamo far parte) e tutta volta alla riduzione del territorio in paesaggio – una merce come le altre da lustrare e mettere in vetrina per meglio venderla, ma di cui avremmo volentieri fatto a meno di parlare. Se non fosse che nel programma spicca un incontro, previsto per il 16 dicembre, con Luca Romano, autore di un libro dal titolo eloquente: “L’avvocato dell’atomo”.
https://www.amazon.it/Lavvocato-dellatomo-difesa-dellenergia-nucleare/dp/B09S5VSCG9

Si tratta di un fisico, pubblicista/pubblicitario del nucleare che sventolando la bandiera della scientificità – con la sempre verde dichiarazione di guerra alle fake news – affronta le critiche e le obiezioni al nucleare più mainstream e meno radicali ovvero quelle che valutano costi e benefici delle singole soluzioni tecnologiche senza criticare alla base il modo di produzione/distruzione del sistema di cui il nucleare è l’emblema più chiaro. Non è consigliabile, per uno scienziato da social media, affrontare la relazione intrinseca tra nucleare, estrattivismo e guerra – quella relazione che spiega l’importanza strategica per tutti i blocchi di potere dell’Ucraina, che è il primo Paese al mondo per riserve di uranio (la benzina dell’energia nucleare), oltre che di altre risorse strategiche per il sistema industriale, da cui deriva la vera ragione del bagno di sangue lassù2. Questa stessa relazione si materializza in Ansaldo Energia, società controllata da Leonardo Finmeccanica, il colosso italico degli armamenti, che ha da poco dichiarato l’apertura di una “cordata per l’atomo”3; giova ricordare anche che, grazie alle guerre volute da destra e da sinistra, Leonardo ha triplicato negli ultimi due anni i suoi utili (che non erano certo magri in precedenza). Si chiama economia di guerra, è la stessa che prevede che la sanità faccia schifo, che le strade siano disastrate e non ci siano soldi per la cura dei territori: tutti temi per cui sono state organizzate marce a cui i sindaci sono stati ben contenti di partecipare, a patto che non venissero ricordate le loro responsabilità (e, in alcuni casi, i profitti privati di qualcuno).
Si dirà, “sì, d’accordo la relazione tra il nucleare e la guerra però… che c’azzeccano difesa del nucleare e valorizzazione del paesaggio?”
Intanto è un buon modo per dimostrare che sulle questioni strategiche e di sistema non ci sarà nessuna opposizione dalla c.d. opposizione PD che qui ha la sua egemonia amministrativa4. Quando si parla di nucleare non è in ballo soltanto la questione, non certo secondaria, dell’accaparramento energetico ma anche la tenuta e il consolidamento di quella tecnocrazia militare che ha fatto il suo grande ingresso in società durante la gestione pandemica grazie (molto) al PD e ai governi tecnototalitari di Conte e Draghi. Questo stesso pilota automatico tecnomilitare ha oggi Meloni & Co. come giullari di corte ma gli stessi stati maggiori militari, servizi segreti, high tech company e grande finanza, come gestori (dei gestori che nessuna elezione potrà mai scalzare dal loro posto). Il nucleare è la tecnologia perfetta per una società che avrà sempre più bisogno di gestione autoritaria per mantenersi in piedi (mentre il mondo crolla): centralizzazione del controllo, una catena di comando militare/civile per prevenire gli attacchi e per gestire le emergenze; un apparato di soldataglia ovunque che servirà anche a soffocare nel sangue qualsiasi spiraglio di rivolta, qualsiasi rottura della pace coloniale – come ci ricorda quotidianamente l’orrore democratico subìto dalla popolazione di Gaza. Per questo siamo contro il nucleare, perché rafforza i nemici della libertà che tengono in catene, miseria e cerchi di fuoco l’umanità.

Il deposito di scorie nucleari e il paesaggio

E però l’inserimento di una simile arringa pro-nuke proprio all’interno di questo tipo di kermesse non si spiega solo con queste ragioni generali. Non vorremmo (ma è probabile) che dietro se ne nasconda un’altra: più contingente, più urgente, più locale. Le Madonie compaiono tra i 60 siti individuati dall’agenzia governativa SOGIN come adatti ad ospitare un mega deposito di scorie radioattive; un deposito che diventa ancora più importante dal momento che le classi dirigenti vogliono il nucleare e lo vogliono il prima possibile. Organizzare, sotto le mentite spoglie di un dibattito, un momento di propaganda pro-nuke serve sia a preparare il terreno del consenso locale sia a mandare il messaggio che qui, sulle Madonie, è possibile far coesistere una potenziale bomba radioattiva con la diffusione dell’immagine da paradiso naturale da vendere al turista. L’organizzazione dello spettacolo non conosce contraddizioni insanabili ma solo sfide da superare e tutto è possibile per chi detiene i mezzi di produzione dell’idiozia sociale: è successo in Salento col Tap, può succedere qui col deposito di scorie.

Mentre ci si indignava, giustamente, per le parole razziste di un miliardario locale che si lamentava dell’abbandono dei territori, riversandone come sempre la responsabilità in basso, ai giovani siciliani nullafacenti, nessuno ha detto un fatto semplice e banale: quello stesso deserto è voluto e imposto dalla gente della sua “razza”, dagli uomini dei centri di potere statuale ed economico che mentre affollano le sue sfilate decidono della sorte (e della morte) di interi territori.

Tutto il resto sono solo chiacchiere, buone per distrarre gettando fumo sui quotidiani disastri e su chi li rende possibili.

Per questo invitiamo tutti gli individui di cuore e di spirito critico a disertare e/o a contestare l’evento in programma, col pensiero rivolto all’altra sponda del Mediterraneo, a chi sta vivendo sulla propria pelle un altro genocidio voluto dall’Occidente.

Contro il Nucleare, al fianco dei palestinesi e di tutti i popoli oppressi!

 

1https://www.palermotoday.it/eventi/filmfestival-paesaggio-2023-pollizzi-generosa.html

2https://www.unicampus.it/news/fonti-energetiche-il-tesoro-dell-ucraina-e-l-uranio/#:~:text=27%20luglio%202022%20-%20Con%20quindici,%2C%20ferro%2C%20mercurio%20e%20carbone.

3https://genova.repubblica.it/cronaca/2023/11/12/news/ansaldo_urso_convoca_le_imprese_riapriamo_la_strada_al_nucleare-420202356/

4 Un’evidenza per tutti quelli che non sono nel libro paga dell’apparato di formattazione dei cervelli, che rende particolarmente insopportabili e patetiche le posizioni di Romano. Riportiamo un passaggio di una recensione, ovviamente apologetica, del libro dell’autorevole servitore dell’industria atomica: <Perché questo libro non servirà a niente” è il titolo di un paragrafo dell’Avvocato dell’atomoin cui l’autore, fisico e giornalista scientifico, dichiara che la sua esposizione dettagliata e precisa dei fatti nulla può per sconfiggere la paura per l’energia nucleare, che è il naturale timore dell’ignoto> , come se non sapesse che non basterà la paura dell’ignoto dei dominati a fermare i piani assassini dei dominanti.

Appunti libertari sugli incendi in Sicilia e Sardegna

Abbiamo prodotto un opuscolo sugli incendi, contenenti due testi. A parte “il problema non è il fuoco” (scritto da noi e che potete leggere nel post qui sotto), contiene “Cenere e macerie”, testo di un compagno sardo uscito sulle pagine di Nurkuntra qualche anno fa.

Per chi volesse delle copie cartacee, scriva a: scirocco@autoproduzioni.net. Chiediamo 2€ a copia per chi ne prende almeno 3 più 1,5 € per la spedizione.

Qui si può leggere e scaricare l’opuscolo in versione web: Opuscolo Incendi

Incolliamo qui sotto l’introduzione.

Lo sappiamo, sul tema degli incendi non bastano due scritti. Eppure, come per tutte le imprese ardue che sia una passeggiata impervia, un lavoro gravoso, o il mantenere una prospettiva di liberazione in questi tempi di pensiero unico dell’ubbidienza si tratta di cominciare.

Come successo in un’altra occasione editoriale (Nc’at murigu 2020), ma quella volta per iniziativa di compagni sardi, abbiamo scelto, sulla questione, di affiancare questi due scritti, uno nostro siciliano e uno sardo, appunto.

I motivi, lo scopriranno tanto i lettori sardi quanto quelli siciliani, sono diversi. Innanzitutto perché si integrano bene, l’uno illumina qualcosa che nell’altro manca e viceversa. E questo dice già qualcosa d’altro: che a fronte delle differenze – sociali, economiche, culturali – sulla questione-incendi le analogie tra le due isole sono molte. Non solo in riferimento alle cause storiche che si intrecciano con le sorti delle comunità e delle economie locali ma anche in rapporto al processo, ugualmente storico, che quelle comunità ed economie ha distrutto. Quella gestione burocratica statuale dei boschi e dei vasti entroterra isolani che, in Sicilia come in Sardegna, ha significato anche un laboratorio di gestione delle popolazioni, un sofisticato dispositivo di distruzione dell’autonomia di vita e di espropriazione del territorio agli abitanti a mezzo stipendio (precario e “garantito” dai vari ceti politici poi diventati pletora sindacale). Tutta questa storia, accennata nello scritto di Nikola e approfondita in altri scritti di Nurkuntra, ci insegna che la diade statocapitale ha potuto modificare antropologicamente collettività e singoli abitanti (plasmandoli all’uso della società del dominio) in primo luogo mutando il loro rapporto intimo ed esteriore con l’ambiente.

Inoltre, lo scritto di Nikola sulla Sardegna, si dilunga più approfonditamente sulla storia autoctona, contadina e pastorale, degli incendi. Nel fare ciò questo compagno rivela nella pratica una certa etica del radicamento; il riferirsi e il sentirsi parte di una tradizione, non significa accettare tutto quello che da lì viene acriticamente, ma semmai il contrario: farla vivere, significa esercitare un’attitudine attiva nella dialettica tra ciò che è individuale e ciò che precede l’individualità. Un passaggio di sguardo, un certo “uso” delle storie che ci fanno, a cui siamo legati e che erano emersi durante la due giorni in Sicilia su Sud, Civiltà contadina, cosmovisioni e rivoluzione.

Per ultima, qualcosa che lega con discrezione, facendo da sfondo, i due scritti. A scriverli sono stati due compagni della montagna, barbaricina (Sardegna) e madonita (Sicilia). A dimostrare che secoli e millenni di dominazione non possono sopprimere la voglia di libertà e di una vita radicalmente altra, (anche) perché i territori regalano agli sguardi abitanti dei cocciuti sovversivi le tracce delle lotte che ci hanno sì visti sconfitti ma non (ab)battuti. E anche che la sopravvivenza delle storie carsiche dei territori può realizzarsi solo nelle lotte di liberazione, nell’esperienza individuale e collettiva della vera vita.

Per la Terra, per la Libertà!

 

 

Il problema non è il fuoco

Appunti libertari sugli incendi in Sicilia

Un giorno un giornalista andò da un poeta e gli chiese: «Qualora le si incendiasse casa,

lei cosa salverebbe?»

Il poeta rispose: «Il fuoco»

Guido Celli

Questo cosmo non lo fece nessuno degli dei né degli uomini

ma sempre era, ed è, e sarà.

Fuoco sempre vivente che con misura divampa

e con misura si spegne”

Eraclito, Frammento 2

Questo scritto parte per dare conto di uno stato di scuotimento e tentare una via di uscita: quello scuotimento che ti prende quando tutta la terra, che senti tua in modo non proprietario, brucia quasi per intero (un’esperienza estiva che si ripete a cicli sempre più brevi). Come tutte le esperienze eccedenti, è caratterizzata nelle prime fasi da uno spettro di sentimenti indistinti: rabbia, sgomento, sconforto, tristezza. Quando la casa brucia si vive il dubbio radicale su quanto sia vera la conoscenza che presumiamo di avere su di essa. Questa situazione psicologica di radicale spiantamento nel caso degli incendi della settimana scorsa si è spansa su tutta l’isola, densa e spessa come il fumo nero che abbiamo respirato.

Come reazione fisiologica e giusta, da più parti stanno nascendo assemblee (alcune più a taglio territoriale/autorganizzativo, altre di taglio più generale1) che poggiano su un sano e netto rifiuto di delegare la salvaguardia del territorio e delle collettività abitanti alla politica e alle istituzioni, cercando di dotarsi di strumenti di analisi, prospettiva e intervento autonomi. Consideriamo questo scritto come un piccolo contributo in tal senso, realizzato da una prospettiva schiettamente e concretamente libertaria. Uno sguardo, quindi, animato da una tensione etica che consideri l’importanza della massima aderenza mezzi/fini e che cerchi di scorgere e costruire percorsi in cui si valorizzino soluzioni che non alienino mai dalle assemblee il potere di comprendere (il) e agire (sul) territorio. Un spirito curioso e capriccioso abita da sempre la storia delle assemblee: a seconda di come gli giri, queste possono essere occasione di incontri inauditi, di meraviglia e reinvenzione della vita (risolvendo problemi concreti e andando ben oltre) o, al contrario, volgere in aridissime imitazioni dei parlamenti con tutto il corollario di palloni gonfiati di retorica e vanagloria. Ma non ci si inganni: l’umore di questo spirito dipende direttamente dall’attenzione che tutti gli individui associati in assemblea donano ai processi e agli argomenti di vita comune che si affrontano. Quindi lunga vita a queste assemblee, che durino e fioriscano al di là del tempo e delle ragioni della cosiddetta emergenza.

per leggere tutto il documento:

ilproblemanonèilfuoco

 

Guerra e repressione- Solidarietà ad Antudo e a tutti i compagni e compagne inquisite/i negli ultimi mesi

L’ingiustizia è la più grande istigazione a delinquere

“…intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale”

In queste poche righe sta racchiuso il colpo di genio che l’intelligenza repressiva ha elaborato negli ultimi decenni. Grazie al lavoro degli instancabili giuristi con l’elmetto, necessari al Sistema quanto lo sono gli enti di ricerca sui sistemi d’arma, la vaghezza della nozione di terrorismo è stata completamente assunta dalla lingua dello Stato per potere essere impiegata come arma contro i suoi nemici. Se “intimidire la popolazione” o le popolazioni è una prerogativa morale e materiale di ogni Stato- e quindi senza effetti giuridici, visto che è inimmaginabile uno Stato che persegua se stesso- rimane, a moralizzare l’azione repressiva, la seconda parte del periodo. Scompare dall’orizzonte dei sacerdoti del diritto la violenza strutturale, le migliaia di morti annue prodotte da frontiere, carceri, lavoro, inquinamento, nocività; scompaiono le carneficine perpetrate dagli eserciti e gli orizzonti attuali di terza guerra mondiale con corredo di olocausto nucleare. Mostro è, in questo bel mondo, chi pensa di opporsi e pensa di farlo non solo platonicamente ma agendo “contro le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali”: a dimostrare che niente, neanche il rapporto tra significati e significanti, resta fuori dalla guerra sociale.

In queste settimane stanno fioccando le inchieste per associazioni con finalità di terrorismo verso compagni e compagne che hanno lottato al fianco di Alfredo Cospito e contro il 41 bis. In Sicilia, le case di sei compagni e compagne di Antudo sono state perquisite con l’accusa di istigazione a delinquere e di atto con finalità di terrorismo (280 bis). Queste accuse si riferiscono tanto alla pubblicazione del video di un attacco ad una sede di Leonardo s.p.a. in Sicilia e al testo che l’accompagnava (istigazione a delinquere), quanto all’azione di attacco in sé (280 bis). Se una cosa vigliacca e schifosa come la repressione può avere un merito è che, nel farla, lo Stato parla chiaro.

Il carcere, il 41 bis, Leonardo s.p.a. e tutto l’apparato tecno-militare-carcerario, sono “strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali” dello Stato e dell’organizzazione sociale in attuale traghettamento verso l’utopia del controllo totale. Dalla guerra all’intelligenza artificiale, dalla collaborazione nella colonizzazione sottomarina con reti di cablaggio internet alla robotica e al 5G, per Leonardo s.p.a. non ha alcun senso la distinzione tra militare e civile (e scompare anche la distinzione tra “statuale” e “capitalistico”).

Quanto a noi, oltre a dare la più calorosa e sincera solidarietà alle inquisite e agli inquisiti, ci preme ribadire un concetto che ci è molto caro. A prescindere da chi quell’azione l’abbia realizzata, essa va difesa, dichiarata giusta, rivendicata- non in nome di un’organizzazione ma in nome dell’appartenenza sociale e umana all’enorme e anonima schiera degli oppressi, dei bombardati, dei morti che diventano statistica. Quella azione che per loro è terrorismo, è per noi fonte di incoraggiamento, è un atto di dignità esemplare. Loro hanno i codici, noi abbiamo la nostra memoria di oppressi: dalla colonizzazione di ieri all’estrattivismo e alle guerre di oggi, lo Stato è il più grande produttore di terrore.

Solidarietà a tutti i compagni e le compagne indagate nei recenti procedimenti!

Solidarietà ad Alfredo, Anna, Juan, Zac, Paska, Rupert, Davide e a tutti i rinchiusi, i ristretti, i braccati dalla legge! 

Solidarietà a Domenico Porcelli, in sciopero della fame da 5 mesi contro la morte-in-vita del 41 bis!

Solidarietà alle popolazioni e agli individui colpiti dagli incendi devastanti! Il problema non è il fuoco, è la miscela tra il fuoco e l’etica assassina di una società basata sul profitto e sulla sopraffazione.

alcune/i siciliane/i contro lo Stato e i suoi tentacoli