Radici al vento

E’ uscito, per il numero di chiusura della rivista anarchica “I giorni e le notti”, un contributo di alcun* curatori di questo blog. Riportiamo l’introduzione qui sotto e la versione completa dell’articolo nel link in basso.

In Sicilia, potrete trovare la rivista (a breve? Dipende dalle poste…), presso: Alavò- Laboratorio per l’Autogestione, a Polizzi Generosa (alavo.noblogs.org ); il circolo Carrettieri, in via Carrettieri 14, Palermo;  a Messina presso la distro di Stretto Libertaria (http://nopassaran.noblogs.org).   Oppure, se ne voleste chiedere più copie, scrivete all’indirizzo:  navedeifolli@gmail.com

 

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Radici al vento

Il giorno

L’albero non ha più le foglie”

zù Jachinu Spagnuolo, contadino e uomo-albero

Con queste parole, dette nel siciliano di Polizzi a sua moglie e compagna di una vita, il nostro amico Gioacchino ha presagito e annunciato la propria morte. Le ha pronunciate il mattino del’8 gennaio e se n’è andato, con un infarto, la notte immediatamente successiva. Gioacchino non era un compagno nel senso che diamo, in ambiente anarchico, a questo termine, ma molte volte abbiamo mangiato con lui e più spesso abbiamo condiviso il pane della parola sul mondo e sulla vita. Se n’è andato a 84 anni quasi compiuti – li avrebbe compiuti il 14 febbraio e molto dice la data di nascita di quest’uomo così capace di amare, che lascia dietro di sé la scia dolce della sua presenza, di una saggezza coltivata a giardino, a orto, a noccioleto; a noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, rimarrà a lungo nella memoria il suo sguardo abitato dall’esperienza con gli altri: con le persone, in un’arcata di tempo che ha visto il suo mondo – la civiltà agricola di montagna, con ampi margini di autonomia materiale e immateriale – prima cambiare e poi scomparire; con le piante e con gli animali che tanto gli hanno dato, in quanto lui (si) era disposto a (ap)prendere.

Gioacchino era un uomo radicato e felice come pochi ne abbiamo conosciuti. Per questo non ci è sembrato abusivo tratteggiare qui alcuni lineamenti del suo essere.

La sua frase di congedo dice qualcosa sul radicamento anche agli sconosciuti, qualcosa da apprendere visto che, generalmente, ci manca. L’essere radicati è, tra le altre cose, un’esperienza del corpo, un appartenersi integrale che l’intelligenza del nostro amico riporta non a caso con l’immagine dell’albero spoglio; questo dialogo organico è così forte che non si interrompe neanche con lo spegnersi dell’armonia entropica che ci tiene in vita: esso cambia semmai di segno, dando agnizione della morte imminente.

Ci sembra che, tra le tante cose che il Sistema mette in conto di distruggere per perpetuarsi, ci sia anche questa esperienza, questo appartenersi integralmente che, finché dura, potrebbe mandare in pensione Descartes, il mondo scisso da lui architettato e tutti i suoi eredi contemporanei, i molti e variegati “gestori della vita”.

Sentirsi un albero spoglio, sentire l’inverno della vita, e non abbattersi: questa postura di dignità di fronte all’avvicinarsi della morte ci sembra inoltre una vera e propria diserzione del paradigma della sopravvivenza tele-aumentata-senza-fine promossa dall’utopia transumanista.

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