Ma chi ha detto che non c’è
Resoconto della due giorni siciliana “Sulla soglia”
Qui il pdf del testo: Resoconto due giorni
“Quale deserto dobbiamo attraversare per arrivare all’estinzione dello Stato? O cominciamo ad operare su delle cose che ci permettano di misurarci sulla costruzione di altre possibilità di concepire la storia, la società, oppure aspettiamo che si estingua lo Stato? Come avviene la trasformazione? (…) Come non ho fatto un collettivo di comunisti, così non farò un collettivo di anarchici puri. È chiaro che la cosa è complessa e possiamo fare grossi errori, ma io credo che quella della diversità sia l’unica strada che ci si può permettere di tentare”.
Giuseppe Aiello – Raffaele Paura, Quale deserto fegato
“Mi è capitato spesso di vedere belle, anche fisicamente, persone che fino a qualche tempo prima mi sembravano quasi insignificanti. Quando con qualcuno stai progettando la tua vita e sperimenti te stesso nella rivolta possibile, vedi nei tuoi compagni di gioco degli individui belli, e non più i volti e i corpi tristi che esauriscono la propria luce nell’abitudine e nella coercizione. Credo che siano proprio loro a diventare belli (e non io a vederli tali) nel momento in cui esprimono i propri desideri e vivono le proprie idee”.
Massimo Passamani, Il corpo e la rivolta, «Canenero»
“Il dominio è difficile da spezzare non nonostante, ma perché dimezza i soggetti. Nessuna natura intrinsecamente libera si ribella a ciò e non c’è nessun fiorire radioso di soggettività a farsi beffe dell’oppressione: l’umanità che resiste al deserto è quella che conosce l’ubicazione dei pozzi e che sa ripararsi dalle tempeste, non quella che mangia sabbia. Ma conosce la dislocazione delle fonti e sa costruire ripari solo chi l’ha imparato”.
Stefania Consigliere, Antropo-logiche
È difficile fare un resoconto di ciò di cui, per eccesso, non ci si può rendere del tutto conto.
Quindi, come primo punto, questo: il senso di una dilatazione – del possibile, della corporeità, dell’intelligenza senziente – avviene quando lo spaziotempo del discorrere si costruisce come volontà precisa di unire corpi e pensieri, cibo e balli, ricerca dell’ekstasis – rottura della stasi – e analisi rivoluzionaria. Chi ha partecipato a “Sulla soglia” è stata/o attraversata/o da una sensazione simile a quella del guarito: una pienezza nuova, seppure intangibile, inappropriabile, transitoria.
Un eccesso, appunto, che si può tentare di dire a (ma che non si esaurisce nelle) parole: una festa della presenza, dopo il lungo inverno della rimozione. Una presenza ristabilita del discorrere anarchico: l’animarsi appassionato di sguardi divergenti sulla vita e sulla lotta, nel solco di quello che ha scritto Cœurderoy: “non conosco fratelli nella battaglia delle idee”.
Si è discusso dell’importanza del radicare comunità di lotta per farle durare, del non-detto della colonizzazione meridionale e del rifrangersi dei suoi effetti anche dentro il movimento, dei futuri scenari insurrezionali, di scontro, di attacco, di nuove possibili gnosi del sociale e metodologie dell’organizzazione informale, senza mai la volontà di una sintesi, cioè senza (volere) cadere vittime dell’illusione di potere stilare risoluzioni chiare di fronte alla complessità della realtà. Una realtà dai confini incerti di cui non si sarebbe potuto parlare per punti se non si fosse partiti (e ciclicamente tornati) dallo scossone culturale rappresentato dalla gestione militaresca del Covid19, in un confronto tra questa “nostra” apocalisse culturale e quelle che il dominio occidentale ha storicamente imposto ai mondi entrati nell’orbita delle sue conquiste coloniali; di questo passaggio, della sua dismisura, si è parlato non con la pretesa di potere risolvere a parole ma come di qualcosa che d’ora in avanti farà parte del nostro modo di essere umani – al di qua del linguaggio, al di sotto dell’esperienza; ma, visto che non vogliamo darla vinta ai torturatori, il minimo che possiamo fare è non dimenticare i fatti, né le responsabilità, né gli obiettivi. A coagularsi è stata la necessità vitale di lanciare uno scandaglio nel buio di abisso dell’isolamento di tutti e di ognuno/a, la coscienza che contrastare l’orizzonte di atomizzazione della società digitale è la condizione necessaria per riappropriarsi delle nostre possibilità di prospettiva in quanto umani e in quanto anarchici. Una piccola prova è consistita nel vedere riaccendersi le parole e i corpi dei contadini, dei pastori e dei paesani amici nostri, al contatto con le parole e lo spirito anarchici – un riaccendimento che ancora echeggia e che sta a noi compagni locali non fare ripiombare nella solitudine spegnente.
Sarà, forse, rimasto deluso chi cercava da questa due giorni una terapia immediata dell’assenza. Non è un caso: i rivoluzionari non possono essere dei proclamatori di parole di fuoco che non toccano mai il cuore pallido della vita – che impallidisce ogni giorno di più di fronte al rischio concreto e spettacolare di olocausti nucleari e dell’incapacità del basso di reagire. Semmai, la capacità nuova che ci è richiesta è di sapere interrogare quel pallore di superficie, saperne riconoscere le presenze: è a partire da un nostro ristabilito territorio di senso e di scambi, attraversato (e attraversabile) dagli altri oppressi, che potremo allargare gli orizzonti del possibile; ma è altresì vero, e non da oggi né dall’altro ieri, che migliori condizioni di respirabilità per gli esseri si possono dare dopo una rottura, più o meno approfondita, della trama quotidiana capitalistica: cospirare per respirare insieme. Eppure, a queste latitudini, sentiamo quanto queste rotture possano avvenire in ogni momento e a quel punto si tratterà “solo” di esserci a lavorare per allargarle; è infatti sul piano dell’esserci, dell’essere presenti a noi stessi, che bisogna forse dedicare sforzi e attenzione.
Dal punto di vista teorico cosa regala ai nostri spiriti erranti questa due giorni di discussioni e convivialità? Innanzitutto la coscienza (piena e posteriore) di cosa voleva essere: uno spazio di cura e un banco di prova pratico per dimostrare a noi stessi di essere ancora all’altezza delle nostre idee: l’autogestione dei pasti e dei lavori tra liberi e uguali; la capacità di mantenere una certa atmosfera di presa bene e reciproca amorevolezza non scontati – considerando che il gruppone che ha predisposto il tutto ha condiviso sforzi e quotidianità per cinque giorni (non proprio pochi tra chi, fino a quel momento, non si era mai vissuto così intensamente); sul piano dei dibattiti, la coscienza di non ricercare solo e tanto l’analisi a breve raggio delle linee di faglia, dei punti di rottura possibili, ma di volersi porre già oltre, dove i punti di applicazione della rivolta avranno fruttato allo sguardo la possibilità di ricreare condizioni di vita, e ai/alle rivoluzionarie il senso del dovere essere in questa possibilità. Una follia forse, ma nessuno può essere certo che il poter discutere tra noi a fondo e con agio si dia nei tempi prossimi venturi. Altri spunti. Il nuovo terreno di contesa dello scontro in atto è la definizione (che il tecnodominio trasforma permanentemente in terreno di conquista coloniale) dell’umano. L’ideologia transumanista del sistema, dal suo canto, tende a naturalizzare la visione meccanicista del corpo caduco della specie (da monitorare con la telemedicina e da aggiustare con i ritrovati convergenti delle nano-biotecnologie), la costruzione atomistica e razionalistica dell’individualità e della sua psiche, la gestione centralizzata e tecno-militare delle sciagure industriali e dei conseguenti sconvolgimenti sociali. Si pone l’importanza di collocarsi anche su questo orizzonte di scontro: cioè il sapere dire – sapere difendere (e il sapere difendere per continuare a poterlo dire), dal canto nostro, qualcosa sulla vita della specie. È un compito arduo perché deve fare i conti con un lavoro etico (uno sforzo, cioè, sia di teoria che di passione) di apertura e chiusura: chiuso abbastanza da tenere fuori i varchi che i totalitarismi – in particolare la sua forma attualmente in voga, il transumanesimo tecnocratico – potrebbero sfruttare per recuperarne senso e portata; ma aperto abbastanza da potere includere tutte le forme umane dello stare al mondo che il dominio totalitario ha schiacciato e schiaccia per affermarsi e che raccontano di altre possibilità di vita; e, ultima ma non ultima, una visione che possa essere uno strumento pratico di rivoluzionamento della vita, cioè essere comprensibile dalla più vasta area possibile di umanità oppressa, per riappropriarsi della propria vera guerra, disertando quelle fittizie e terribili dei dominanti.
È chiaro per chi ha organizzato la due giorni che un simile compito non possono svolgerlo i/le rivoluzionarie nel chiuso delle loro stanzette, cioè nei posti in cui ci relega la società che vogliamo distruggere. Ed è altrettanto chiaro che nell’indisponibilità di lotte attuali, diventa difficile, se non impossibile, intravedere in nuce le caratteristiche della vita per cui ci battiamo, in quelle stesse esperienze di cui soffriamo l’assenza. Per questo, quindi, abbiamo scelto di parlare di civiltà contadina. Non siamo così ingenui da pensare che una forma di vita si possa ricreare semplicemente rievocandola o per decreto della volontà; inoltre, sappiamo quanto alcuni aspetti della civiltà contadina siano indigesti da un punto di vista libertario, perché con essi ci scontriamo quotidianamente vivendo in mezzo alle scorie ideologiche che, non a caso, la società del capitale ha fatto sopravvivere alla sua estinzione.
Pensiamo però che tutte le teorie della rivoluzione germinino nel terreno della storia, ossia dalla capacità di lavorare in maniera inedita e liberatoria materiali, più o meno esposti, più o meno sotterranei, a disposizione dei soggetti – incarnati e storici – che vogliono una trasformazione radicale della vita.
Ma qui, forse, ci stiamo spingendo oltre. Nel…
…resoconto di ciò che è rimasto in sospeso
Ci sono stati diversi termini ricorrenti nel corso di questa due giorni, alcuni, come “attacco” e “comunità”, hanno più volte tracciato la direzione degli scambi, del confronto, dello scontro vivo. È significativo che dalle trame di un tessuto complesso come quello che ha voluto intrecciare presenza al mondo e apocalissi al sud, seguendo le tracce più o meno visibili e vive della civiltà contadina, si siano immediatamente condensati questi due scogli attorno ai quali i flutti del dicibile e del non-dicibile si sono mossi, spinti da sguardi acuti, menti e cuori aperti, volontà di scovare non segnate vie. Dice della compagine umana presente: anarchici del nord, anarchici del sud, curiosi scomodi nella “vita” così com’è (o non è), contadini, “paesani”, compagni che lavorano nell’accademia ma accademici non sono (compagni sì).
La disposizione delle sedute ha orientato i corpi, dunque, influito su qualità e contenuti degli interventi e ha più o meno coscientemente avuto a che fare con un atto fondativo, transitorio nel tempo della quotidianità ma capace, forse, di permanenza in quanti hanno partecipato, condiviso, attraversato questa particolarissima soglia: il cerchio che è stato definito “magico”. Al centro del nostro cerchio, a differenza di villaggi o paesi, non c’erano né un palo, né una capanna o una chiesa, nemmeno un fuoco, ma un grande spazio vuoto. Sul quel vuoto ci siamo affacciati, con attenzione e senza timidezza, e il nostro volgere le spalle a ciò che ci è nemico – il mondo fuori così come lo conosciamo – è servito a lasciare emergere. Rimossi, non detti, tabù, possibilità, interrogativi dalle forme più interessanti. Se il centro non esiste e la periferia è un concetto da colonizzatori e colonizzati, questo vuoto attorno al quale danzare è somigliato a quello stirneriano nulla sul quale fondare la propria causa.
Ciononostante, di tutte le questioni in campo, una è rimasta poco indagata o compresa ed è stata quella sulla civiltà contadina. Di questo mondo e modo umano si è parlato riducendolo a una limitante “riscoperta dei saperi” che, come l’intervento di una compagna ha sottolineato, è un processo recuperato e recuperabile dal sistema. La scelta dei termini non è casuale e tradisce un approccio tutto occidentale nell’isolare e separare il “saper fare” da un “saper (di) essere” e in aggiunta, un generico “riscoprire” che trascura di indagare cause e ragioni della perdita di contatto: che l’emigrazione abbia, tra le sue conseguenze, una difficoltà che rasenta l’impossibilità del tramandare pare affermazione banale, ma di fatto così è stato e continua ad essere. Come, nonostante ciò, qualcosa di un mondo condannato all’estinzione sia sopravvissuto, è invece cosa meno banale sulla quale riflettere. Ci sono ragioni storiche che hanno concorso alla distruzione di quel mondo, alla rescissione dei legami che lo tenevano insieme, vivo; e se non abbiamo difficoltà ad individuarle e analizzarle quando si presentano in un altrove geografico, tendiamo a ignorarle quando si parla di Sud Italia e civiltà contadina, relegando entrambi questi “luoghi dell’alterità” in un profondissimo pozzo d’acqua stagnante. Sarebbe un’ulteriore ingiustizia ignorare i morti che il dominio non ha esitato a mietere in queste terre per sradicare, con la violenza propria del colonialismo, un intero mondo. Dimenticheremmo le fucilazioni dell’esercito piemontese, che ha condannato a morte gli abitanti di interi paesi (giovani e vecchi, donne e bambini, in fila contro un muro) per “controllare” il fenomeno del brigantaggio; la folla di bambini col cranio sfondato da un forcipe nelle mani di medici dotti venuti a rimpiazzare le ignoranti levatrici; l’umiliazione delegittimante di rabdomanti, erbuarie, bambini infatati, tutta la violenza che è stata necessaria per cancellare, rimuovere, sottomettere, convertire. La stessa violenza coloniale per cui si condannano oggi centinaia di indesiderati per reati che solo qui diventano “associazione mafiosa” legittimando l’esistenza del 41bis.
Tornando all’emigrazione, questione che i meridionali sanno e accettano per lo più come un destino, potrebbe essere interessante interrogarsi sull’altra faccia della luna e cioè sulle ragioni di chi non emigra. Il tentativo di quanti rimangono crediamo si accompagni a uno spirito di appartenenza che non si risolve né nella famiglia, né nella paura dello sconosciuto, né nel provincialismo. Ha a che fare con ciò che nelle discussioni è rimasto in ombra o non colto ed è stato sintetizzato (con importanti perdite e malintesi) col termine “comunità”. Ciò che le tracce della civiltà contadina ci suggeriscono parla di un modo assolutamente altro di stare e fare mondo; un diverso rapporto con le proprie mani, che fanno sì “per sé” ma dove “l’altro” entra nello spazio delle linee che ne solcano il palmo: quella solidarietà descritta da Moffo come “fatto naturale” che è necessità sapiente del tenersi insieme dal quale dipende la vita. Come dalla cura e dalla fatica che questa cura comporta – della terra, degli animali, delle piante, degli alberi, di un ecosistema di cui si è, come umani, parte integrante – dipendeva la vita. La propria insieme a quella della collettività. La relazione con l’invisibile, l’abilità di lavorare con le forze che concorrono alla presenza nel mondo, stabilendo equilibri, provocando squilibri, decidendo lo stare bene o lo stare male del collettivo e del soggetto che vi appartiene, è un altro aspetto, difficile da trattare per i paradigmi che ci decidono come soggetti moderni, ma che ha molto da suggerire a quanti si pongono in lotta contro l’esistente. Che questo aspetto di “mediazione” fosse anche una forma di cura, ce lo raccontano ancora, qui, le voci di chi ne è stato testimone e di chi, ancora, possiede tali saperi (pur avendo perso senso e potenza, essendo questi legati a doppio filo con ciò che il mondo intorno è). Ha a che fare con la memoria, la presenza. E nel rapporto con la morte si intravedono le radici di una civiltà. Quella moderna, ha dimostrato la propria inadeguatezza (sintomo di una psicopatologia che è di fatto una delle basi sulle quali si è costruita) in modo spettacolare durante gli anni della gestione pandemica.
Una riflessione sulla tortura, a tal proposito, è stata preziosa e andrebbe approfondita; sulla scia di F. Sironi, è stato individuato un nodo, un rischio comune al meridionale che emigra e al militante che lotta oggi: lo spiantamento. Il sistema produce torturatori scegliendo tra le proprie fila gli spiantati, coloro cioè che non hanno più legame alcuno con la propria terra, i propri affetti, il proprio mondo, tutto ciò che può essere radice. Quella del radicamento è dunque una questione che si oppone al monismo moderno che costruisce individui (o dividui come soleva sottolineare Coppo) che bastano a se stessi e che scambiano tale separatezza per una forma di libertà.
Un passaggio, dell’intervento di Moffo, ha racchiuso (o aperto) quell’essere altro che non ha niente a che fare con le ideologie ma dice di una “comunità dello spirito” che invece, quella sì, ci riguarda: nel parlare dei contadini abbraccia con un Noi la Sicilia e il Perù, lasciandoci stupiti, scossi e commossi dalla potenza tellurica di quel Noi. Come immaginare un Noi che ci comprenda oggi, nel regno della sovrana “scienza della disperazione”, quel noi tutto da costruire, è un’ulteriore scommessa, un meraviglioso e necessario azzardo; tra le qualità che non dovranno mancare: la curiosità (dell’Altro, umano e non, dei suoi mondi, dei molteplici modi), il rimanere aperti a ciò che l’oceano dello sconosciuto ci porterà (o strapperà) in grembo, la disponibilità alla deriva a fronte della chiusura d’orizzonti, l’inflessibile volontà non di vittoria, forse neanche di riuscita, ma di mantenere – sempre – vivo il movimento.